Il Giardino dell’Eden.

Sabato 21 settembre aprirò per The Youngs al GIARDINO di Lugagano di Sona (VR). Il giardino è un posto dove si comincia in orario precisi e si finisce alle 24.

Dove il posto è piccolo ma una band amplifica tutto.

Dove il pubblico che ti sta davanti ti guarda tutto il concerto SEMPRE senza fiatare mentre suoni: al massimo (ma per fortuna me lo hanno soltanto raccontato) dove il pubblico abbandona la sala educatamente in silenzio.

Dove se uno fa casino e chiacchiera impedendo agli altri di sentire bene, beh, è l’ultima cosa che fa lì dentro.

Dove c’è un juke-box della Wurlitzer con i 7′ originali dei ’60 e ’70.

Dove quando suoni come gruppo principale si fanno due set con un quarto d’ora di pausa.

Dove suoni almeno due ore, altrimenti si chiedono come mai gli hai dato soltanto l’antipasto.

Dove il gestore fa un cazziatone al fonico se lascia la cordiera del rullante della batteria mollata quando prima c’è un chitarrista acustico.

Dove il fonico, vuoi per il cazziatone di cui sopra, è un ragazzo giovane e bravissimo che ti tira fuori un suono sul palco e fuori che ti chiedi come fa.

Dove c’è una parete intera con la foto di copertina di Sgt. Pepper dei Beatles.

Dove le luci per il palco partono da una chitarra gigante che capeggia sul soffitto.

Dove il pubblico ti compra i dischi e ti chiede sempre come mai non hai fatto anche il vinile.

Insomma, è un paradiso. Il fatto che sia in un garage di una abitazione, che vi si parli prevalentemente dialetto veneto, che nonostante io ci abbia suonato 4 o 5 volte sbaglino ancora a scrivere il mio cognome :-) probabilmente ha un significato profondo, ma ancora non riesco a coglierlo. E francamente chi se ne frega. Io sabato 21 suonerò una quarantina di minuti prima della miglior tribute band di Neil Young d’Italia. Venite in paradiso con noi?

 

VU.

Era il 4 luglio del 1989, avevo quasi 17 anni. Stavamo andando a sentire “Piastrella Rock”, che era un festival con gruppi locali che suonavano a Fiorano. Lo presentava Stefano Covili di Radio Antenna Uno, detto il Cocco. Siamo saliti sulla macchina (non mia, non potevo) e abbiamo messo sui 104.7, la frequenza di Antenna Uno Rock Station. C’era la nastroteca ed è partita una canzone con un pianoforte che picchiava come un martello e una batteria ancora più ossessiva, delle chitarre che friggevano, poi una voce secca e impietosa attacava dicendo “I’m waiting for my maaaaaaaannnnnn”. Mi andò il cervello in pappa, un suono così non lo avevo mai sentito. Nicola Caleffi, che all’epoca di anni non ne aveva ancora 16 ma già trasmetteva ad Antenna Uno e che era il mio “compagno di dischi” dell’adolescenza mi disse che quelli erano i Velvet Underground. Mi disse che erano fighissimi, che i pezzi erano tutti così, andavano avanti secchi e dritti al punto. Niente assoli inutili, niente virtuosismi particolari o numeri da circo. Mi disse che il testo del pezzo parlava di uno che aspetta il suo spacciatore e che nello stesso disco c’era una canzone che si chiamava “Heroin”. No, dico. EROINA, punto e basta. Se mia madre mi avesse chiesto “Come si intitola questa canzone?” avrei avuto il coraggio di risponderle? Il giorno dopo Nicola trasmetteva in radio e quindi lo passai a trovare e mi feci tirare fuori il disco. Aveva in copertina UNA BANANA e sotto c’era scritto ANDY WARHOL. Non avevo mai visto niente del genere, a parte forse la copertina di “In the court of the Crimson King”. Ma qui la musica era allucinante. E chi cacchio era NICO, che veniva citata in copertina? “Una cantante tedesca”. Ricordai che ne avevo sentito parlare per il fatto che era stata con Morrison. Qui di Morrison ce n’era un altro, si chiamava Sterling ed era chitarrista e bassista. Poi c’era uno che suonava la viola e si chiamava JOHN CALE. Io conoscevo solo J.J. Cale e per un microsecondo mi chiesi se c’entrasse qualcosa. Poi alla batteria c’era scritto un nome. MAUREEN TUCKER. Una donna. Strano anche questo. Partì il primo brano. Nico cantava in tre pezzi, mi aveva detto Nicola. Credetti che il primo fosse “Sunday Morning”, un errore che fanno tutti visto che poi mi dissero che “No, quella è la voce di Lou Reed”. Cosa? Io Lou Reed lo avevo sentito, era quello che cantava “Walk on the wild side”, che faceva “DU DU DU DU DU” nel ritornello. Non poteva essere quello. E invece si. Poi arrivò “I’m waiting for THE man” che io credevo si chiamasse “I’m waiting for MY man” visto che nel testo lo diceva. Strano anche questo, soprattutto perché la voce era sempre quella di Reed, ma stavolta la riconoscevo come tale. Poi arrivò “Femme Fatale” e Nico fece la sua comparsa. Non ci stavo capendo niente ma era tutto bellissimo. Quando attaccò “Venus in furs” il mio cervello andò definitivamente in frantumi. Io una cosa così non l’avevo veramente mai sentita. MAI. C?era una viola distorta che faceva il diavolo a quattro e intanto un tamburello marziale, con questa voce gelida che cantava “Shiny shiny, shiny boots of leather…”

Nessuno ha un suono del genere. Nessuno.

Non ricordo se arrivai a “All tomorrow’s parties” o a “Heroin”. Ricordo che uscito dalla radio andai in un negozio di dischi e comprai “The Velvet Underground & Nico”. Chiesi “Quello con la banana” per essere chiaro, poi scoprii che quel disco è per tutti “La banana”. Quel disco rimase sul piatto fino a settembre. Prima un lato e poi l’altro. Senza soluzione di continuità. Non riuscivo ad ascoltare altro. Ogni tanto pensavo “Adesso cambio disco”, ma poi finivo per mettere SOLO QUELLO. A settembre comprai “Velvet Underground Live With Lou Reed VOl 1” e feci la conoscenza di “Pale Blue eyes” e di un altro aspetto dei Velvet. Quella era una canzone dolcissima e il loro terzo disco, il “disco nero”, ne era pieno. Lo comprai. Lo consumai (quasi) quanto la banana. Poi comprai ogni disco dove trovavo scritto “Heroin”. Comprai “Rock’nRoll animal” di Lou Reed e anche se era pieno di chitarroni roboanti supertecnici mi piacque molto. C’erano alcune canzoni stupende, come “White Light White Heat” e “Lady Day”. Scoprii che la prima era nel secondo album dei Velvet Underground, che però all’epoca non si trovava in vinile neanche a pagarlo oro e quindi me lo feci registrare su cassetta. Era RUMOROSISSIMO. C’era una canzone di 17 minuti che si chiamava “Sister Ray” e scoprii che non era dei Joy Division, visto che l’avevo sentita su “Still” e non mi aveva detto niente, ma mi ricordavo il titolo. C’era “Lady Godiva’s Operation” che era una cosa incredibile. C’era un racconto chiamato “A GIFT” di uno che si fa spedire dentro ad un pacco postale alla sua ragazza per farle una sorpresa e lei nell’aprirlo con due cesoie gli apre la testa in due. Ormai avevo un libro dei testi, di Lou Reed e i Velvet Undeground. Feci la conoscenza con i testi di “Berlin” e lo comprai fiducioso visto che lessi che era prodotto da Bob Ezrin, che aveva messo le mani dentro a “The Wall” dei Pink Floyd. Era un disco bellissimo, di una tristezza cruda e cupa che avrebbe scandito il tempo di parecchie serate dei miei lunghi inverni. Un disco di quelli che quando hai finito di ascoltarlo la tua vita non è più la stessa. Di quelli che esci con i tuoi amici in bar e tutti ti chiedono “Cos’hai?” e allora che gli rispondi? Che hai ascoltato un disco e che ci stai ancora pensando? Poi toccò ad altri album. A “Street Hassle”, che aveva il pezzo che intitolava tutto che durava l’ira di Dio e parlava di uno stupro e di storiacce di strada su un tappeto di archi talmente soave che il contrasto rischiava di annichilirti. Poi “Loaded”, che ora lo salutano tutti come un classico, ma all’epoca ne parlavano tutti male ed in effetti suonava troppo normale, per essere un disco dei Velvet (ma avercene, sia chiaro). Da lì in avanti arrivarono pure “Songs for Drella”, comprato il giorno stesso dell’uscita così come “Magic and Loss”, la cui tournèe mi vide in seconda fila al teatro Storchi di Modena per uno dei concerti più belli della mia vita. Poi ci fu la reunion, che non mi piacque per niente perché quando metti qualcosa su un piedistallo e lo idealizzi poi non dovresti mai farlo scendere sulla terra. Ma la soddisfazione di vedere dal vivo Moe Tucker che suonava in quel modo folle oggi mi rende contento di essere stato là, contro la transenna al centro ovviamente. Arrivai persino a comprare i tributi ai Velvet Underground su Imaginary, dove i Nirvana facevano “Here she comes now” ma la parte del leone erano la versione IMMENSA di “All tomorrow’s parties” dei Buffalo Tom e “What goes on” degli Screaming Trees. Ogni band che faceva una canzone dei Velvet per me era dalla parte giusta (e quante erano, madonna mia). E poi ogni volta che si finiva a suonare con qualcuno e non si sapeva cosa suonare bastava che uno dicesse il titolo di un pezzo dei Velvet Underground oppure di Lou Reed che si poteva suonare alla grande, senza bisogno di essere dei mostri dello strumento.

Non riuscirò mai a spiegare cosa sono stati per me i Velvet Underground. Di sicuro mi hanno cambiato la vita. La vita e la concezione stessa di cosa potesse essere una canzone.

Però, mercoledì 31 Luglio (cioè stasera, per tanti che stanno leggendo) al SUN AGOSTINO di Modena ci saremo proprio io, Nicola Caleffi e i ragazzi di Radio Antenna Uno. Proveremo a parlarvene e a suonarvene, sicuramente tralasceremo qualcosa e argomenteremo in maniera scomposta, sconnessa e inopportuna. Però, con un poco di fortuna, magari potremmo anche cambiarvi la vita. Venite a provare.

Di lavoro (Le parole, la batteria, i batteristi).

C’è una specie di monologo, che in realtà non è un monologo perché non è che io poi stia lì a scrivermi le cose che dico tra una canzone e l’altra quando vado a suonare dal vivo. Non ne ho la capacità, di fare l’attore di teatro. Al massimo mi improvviso un poco cabarettista-cazzone, che quello mi riesce bene e ormai ci sono persone che vengono ai miei concerti solo per sentire le cazzate che sparo tra una canzone e l’altra. Ma sto divagando, come al solito.

Dicevo, c’è una specie di monologo dove dico che secondo me le parole hanno una loro carica naturale che funziona più o meno come la batteria di un cellulare e quindi ogni volta che noi usiamo una parola, questa perde un poco della sua carica originaria. Poi ad un certo punto finisce che dobbiamo lasciare riposare la parola in questione perchè è scarica quasi completamente. A quel punto spesso, come con i cellulari, ci capita di dover utilizzare la parola di nuovo prima che la ricarica sia completa e quindi la carica della parola dura sempre meno, fino a quando la parola è bella che andata e a noi non rimane che non usarla più, perché a quel punto che noi la si usi o meno ormai il suo significato (la sua carica) è andato in vacca.

In genere, dopo aver fatto questo pistolotto introduttivo, suono “La gente”. Che è una parola che secondo me dovrebbe essere lasciata a ricaricarsi per un bel po’.

Ma ce ne sono altre, di parole che dovrebbero ricaricarsi. Una che mi viene in mente al volo è la parola “EVENTO”, che credo spieghi bene l’analogia con la batteria del telefono. Una volta un evento era un cataclisma, un’inondazione, la nascita del proprio figlio. Poi è diventato una roba tipo una visita del Presidente della Repubblica, poi è diventato il passaggio del Giro d’Italia, poi la festa del patrono, poi un concerto in uno stadio, poi un concerto in un pub, poi un dj set e oggi “UN EVENTO” significa più o meno “tre spritz, due ciotole di arachidi e di patatine, un Ipod in funzione Shuffle attaccato a due casse”.

C’è un’altra parola che mi sembra stia subendo una involuzione simile. La parola LAVORO. Già questa è una parola equivoca. Il lavoro cambia il suo significato a seconda dell’ambito. In fisica ha un significato diverso dal linguaggio comune, dove può essere ad esempio usato come sinonimo della parola “COSA” o addirittura della parola “evento”, come in Emilia facciamo spesso. Oppure c’è il significato che le si attribuisce nel senso di “lavoro salariato” o comunque “occupazione”. In pratica, quello che fai per vivere, “quella cosa che ti dà un reddito”.

Avendo scritto qualche canzone sull’argomento, anche io ho probabilmente partecipato allo svilimento collettivo che stiamo attribuendo a questa parola. Mi dispiace e molto, soprattutto perché ritengo di essere arrivato a dare colpi ferali ad un corpo che ormai si rannicchia esanime in cerca di protezione.

Credo infatti che tutti quei politicanti e sindacalisti che dicono che “la priorità è IL LAVORO” abbiano creato la maggior parte del cortocircuito. La priorità non è IL LAVORO. La priorità è IL REDDITO. Visto che difficilmente quest’ultimo si raggiunge non lavorando, a meno di non intraprendere azioni criminali, per la “proprietà transitiva del farsi il culo come una capanna” il lavoro è diventato la priorità di molti di noi. Ma è uno scambiare il mezzo con il fine. Di questo, ad esempio, parlo in “Criceti” (uno dei pezzi del mio ultimo album) attraverso alcuni esempi di vita vissuta che vanno ad indicare quella che secondo me è la funzione del “lavoro”.

In tanti, ad esempio, mi dicono che uno dei loro pezzi preferiti quando suono dal vivo è “Colleghi” (Tanti tra i pochi che mi vengono a vedere suonare, sia chiaro. Non voglio mica esagerare che questo post è già talmente autoreferenziale che “Rattle and hum” degli U2 a confronto sembra davvero un documentario su una tournée).

“Colleghi” parla della mia intolleranza alle cene aziendali, le cosiddette “CENE DI LAVORO”. Le cene di lavoro sono cene dove si mangia tra colleghi di lavoro e in genere paga la ditta, altrimenti nessuno ci va.

Ebbene, ho dovuto purtroppo constatare che la canzone in questione (che eseguo ancora oggi con sommo piacere) è stata inesorabilmente sorpassata dall’usura del tempo, nonostante a me sembrasse di sferzante attualità e diversi apprezzamenti da parte degli spettatori ad ogni sua esecuzione avvalorassero tale ipotesi.

Infatti siamo arrivati alle locandine fuori dai ristoranti che propagandano il “menù fisso a mezzogiorno” come si diceva una volta, chiamandolo PRANZO DI LAVORO. Ora, la cena di lavoro nell’immaginario collettivo è una roba con una bella tavolata grande, parecchie portate, roba sontuosa, scrocconi che prendono il vino che non berrebbero mai se dovessero tirare fuori la grana, discorsoni dei capi che ringraziano tutti i presenti in formule retoriche che in realtà servono ad autoincensarsi e cose così.

Il pranzo di lavoro invece è una roba “Menu fisso 1 primo + 1 contorno + acqua o bibita piccola + caffè = 10 euro”. Una cosa del genere. Infatti è una roba dove si va in quattro al massimo. In una mensa non lo pubblicizzano neppure. E’ la regola. Diciamo che è una formula usata dai ristoratori che significa più o meno

“Questa non è mica una cazzo di mensa, questo è un posto di classe. Però, cari i miei straccioni, se volete venire a mangiare qui nel mezzogiorno sono disposto ad arrivare a questo compromesso, anche perché altrimenti mi tocca chiudere”.

Oppure, se letta nei bar, significa più o meno:

“Si, lo so che c’è scritto BAR. Però guardate che abbiamo un forno a microonde, non vi siete rotti le palle di farvi pelare per mangiare ai tremila chilometri all’ora, che tanto dovete tornare SUBITO al lavoro e manco ve la godete? Arrendetevi”
(Infatti ogni tanto i bar scrivono PRANZI VELOCI, come se fosse obbligatorio andare al bagno a lavarsi le mani di corsa. Alcuni bar un giorno vi noleggeranno anche la tuta e le scarpette)

Io e l’uomo che suona la batteria nei miei dischi, CESARE ANCESCHI detto CICO, che è un uomo che incarna i valori del surrealismo più o meno in ogni azione che compie durante il giorno, abbiamo avuto un’idea che non era male, ormai diversi anni fa.

Ci siamo vestiti di tutto punto, con un completo figo, abbiamo preso delle valigette “giuste” con dentro dei grafici e dei fogli che non volevano assolutamente dire nulla, abbiamo comprato “IL SOLE 24 ORE” e poi ci siamo recati in un ristorante a fare un “pranzo di lavoro”. Un sabato, che in genere il sabato la formula “pranzo di lavoro” non c’è, che anche questa è bella.

Abbiamo pranzato mostrandoci i rispettivi grafici sul nulla (io avevo anche stampato gli accessi a questo blog e le chiavi di ricerca, giusto per fare qualcosa), dopodiché abbiamo iniziato a progettare il futuro dell’iniziativa. Ci siamo detti che avremmo dovuto riprendere l’usanza ogni anno, ogni volta invitando una persona la quale l’anno successivo avrebbe dovuto invitarne un’altra e così via, in una costruzione piramidale che nei nostri sogni più rosei mirava, nel giro di quindici anni, ad aver bisogno di un hotel con centro congressi, dove noi due che eravamo i fondatori avremmo tenuto una relazione sul brillante successo di una iniziativa deliberatamente inutile che aveva come unica caratteristica base la totale stupidità da parte dei partecipanti.

Purtroppo non abbiamo mantenuto la promessa e dopo quella prima edizione, nella quale eravamo gli unici due partecipanti, abbiamo lasciato cadere la cosa pur ripromettendoci ogni volta che avremo dovuto ricominciare facendola diventare una consuetudine.

Nessuno, all’interno del ristorante, ci ha chiesto che lavoro facessimo. Nessuno ci ha chiesto la partita Iva. Ci siamo chiesti allora che pranzo di lavoro fosse, dal momento che veniva applicata la formula esclusivamente sulla fiducia. Tant’è che il mio commensale, in quel periodo, era disoccupato. Eppure alla cassa chiesero “Vuole la fattura o basta la ricevuta?” solo perché eravamo vestiti bene e avevamo dei fogli in mano per tutto il pranzo, che ci passavamo dicendo frasi a caso tra gli sguardi interessati dei tavoli a fianco, conquistati grazie alle espressioni serissime che avevamo mentre pianificavamo i nostri deliri Post-Marxisti (nel senso di Groucho).

Non so perché vi abbia raccontato questa cosa, forse solo perché a noi faceva ridere molto. Ma credo anche perché, se incominciamo a chiamare le cose con il loro nome, probabilmente sarà meno facile per i primi due imbecilli che passano, fingersi quello che non sono.

O forse cercavo solo adesioni :-)

 

Sono sfigato, lo so.

Qualche linea di febbre, la gola in fiamme, una laringite che si sta sfogando. Tutto ciò impone che io salti il concerto previsto per mercoledì con i Walkabouts. E’ la loro unica data italiana ed era una bella occasione per parlare con Chris Eckman di un sacco di progetti. Almeno voi non fatevi scappare l’occasione. Sabato al Pellicano il concerto è invece CONFERMATO. Ci vediamo là.

Stasera, 14 Gennaio.

Non riuscirò ad essere, come precedentemente annunciato, alla festa del tesseramento del Red House di Dinazzano (RE). Purtroppo mi sono alzato con una brutta laringite che da un poco di tempo mi accompagna e che ha deciso, stamattina, di consumare il nostro rapporto sentimentale. Speriamo che non si affezioni :-) e di farcela per mercoledi con i Walkabouts.