Tuo Babbo non si chiama Natale.

Non mi ricordo quanti anni avessi, di sicuro pochi. Ma pochi.
Non mi ricordo che regalo fosse, sicuramente un regalo da poco.
Non mi ricordo neanche cosa stessi facendo in quel momento, sicuramente una cosa da poco.
Stavo parlando con mia madre, che era girata piuttosto male, che aveva lavorato come un mulo tutto il giorno in cava insieme a mio padre.
Le dissi “Si, ma se poi Babbo Natale…”
Lei mi interruppe e urlò, piuttosto seccata “Babbo Natale non esiste!!! Basta!!! Babbo Natale sono la mamma e il papà. Siamo noi che ti abbiamo preso il regalo che vedi sotto l’albero” e poi andò a fare una doccia veloce dopo aver messo su l’acqua per la pasta.

Nessun trauma particolare. Ci sono dei momenti nella vita in cui le cose vanno dette, tutto lì.

Di lavoro (Le parole, la batteria, i batteristi).

C’è una specie di monologo, che in realtà non è un monologo perché non è che io poi stia lì a scrivermi le cose che dico tra una canzone e l’altra quando vado a suonare dal vivo. Non ne ho la capacità, di fare l’attore di teatro. Al massimo mi improvviso un poco cabarettista-cazzone, che quello mi riesce bene e ormai ci sono persone che vengono ai miei concerti solo per sentire le cazzate che sparo tra una canzone e l’altra. Ma sto divagando, come al solito.

Dicevo, c’è una specie di monologo dove dico che secondo me le parole hanno una loro carica naturale che funziona più o meno come la batteria di un cellulare e quindi ogni volta che noi usiamo una parola, questa perde un poco della sua carica originaria. Poi ad un certo punto finisce che dobbiamo lasciare riposare la parola in questione perchè è scarica quasi completamente. A quel punto spesso, come con i cellulari, ci capita di dover utilizzare la parola di nuovo prima che la ricarica sia completa e quindi la carica della parola dura sempre meno, fino a quando la parola è bella che andata e a noi non rimane che non usarla più, perché a quel punto che noi la si usi o meno ormai il suo significato (la sua carica) è andato in vacca.

In genere, dopo aver fatto questo pistolotto introduttivo, suono “La gente”. Che è una parola che secondo me dovrebbe essere lasciata a ricaricarsi per un bel po’.

Ma ce ne sono altre, di parole che dovrebbero ricaricarsi. Una che mi viene in mente al volo è la parola “EVENTO”, che credo spieghi bene l’analogia con la batteria del telefono. Una volta un evento era un cataclisma, un’inondazione, la nascita del proprio figlio. Poi è diventato una roba tipo una visita del Presidente della Repubblica, poi è diventato il passaggio del Giro d’Italia, poi la festa del patrono, poi un concerto in uno stadio, poi un concerto in un pub, poi un dj set e oggi “UN EVENTO” significa più o meno “tre spritz, due ciotole di arachidi e di patatine, un Ipod in funzione Shuffle attaccato a due casse”.

C’è un’altra parola che mi sembra stia subendo una involuzione simile. La parola LAVORO. Già questa è una parola equivoca. Il lavoro cambia il suo significato a seconda dell’ambito. In fisica ha un significato diverso dal linguaggio comune, dove può essere ad esempio usato come sinonimo della parola “COSA” o addirittura della parola “evento”, come in Emilia facciamo spesso. Oppure c’è il significato che le si attribuisce nel senso di “lavoro salariato” o comunque “occupazione”. In pratica, quello che fai per vivere, “quella cosa che ti dà un reddito”.

Avendo scritto qualche canzone sull’argomento, anche io ho probabilmente partecipato allo svilimento collettivo che stiamo attribuendo a questa parola. Mi dispiace e molto, soprattutto perché ritengo di essere arrivato a dare colpi ferali ad un corpo che ormai si rannicchia esanime in cerca di protezione.

Credo infatti che tutti quei politicanti e sindacalisti che dicono che “la priorità è IL LAVORO” abbiano creato la maggior parte del cortocircuito. La priorità non è IL LAVORO. La priorità è IL REDDITO. Visto che difficilmente quest’ultimo si raggiunge non lavorando, a meno di non intraprendere azioni criminali, per la “proprietà transitiva del farsi il culo come una capanna” il lavoro è diventato la priorità di molti di noi. Ma è uno scambiare il mezzo con il fine. Di questo, ad esempio, parlo in “Criceti” (uno dei pezzi del mio ultimo album) attraverso alcuni esempi di vita vissuta che vanno ad indicare quella che secondo me è la funzione del “lavoro”.

In tanti, ad esempio, mi dicono che uno dei loro pezzi preferiti quando suono dal vivo è “Colleghi” (Tanti tra i pochi che mi vengono a vedere suonare, sia chiaro. Non voglio mica esagerare che questo post è già talmente autoreferenziale che “Rattle and hum” degli U2 a confronto sembra davvero un documentario su una tournée).

“Colleghi” parla della mia intolleranza alle cene aziendali, le cosiddette “CENE DI LAVORO”. Le cene di lavoro sono cene dove si mangia tra colleghi di lavoro e in genere paga la ditta, altrimenti nessuno ci va.

Ebbene, ho dovuto purtroppo constatare che la canzone in questione (che eseguo ancora oggi con sommo piacere) è stata inesorabilmente sorpassata dall’usura del tempo, nonostante a me sembrasse di sferzante attualità e diversi apprezzamenti da parte degli spettatori ad ogni sua esecuzione avvalorassero tale ipotesi.

Infatti siamo arrivati alle locandine fuori dai ristoranti che propagandano il “menù fisso a mezzogiorno” come si diceva una volta, chiamandolo PRANZO DI LAVORO. Ora, la cena di lavoro nell’immaginario collettivo è una roba con una bella tavolata grande, parecchie portate, roba sontuosa, scrocconi che prendono il vino che non berrebbero mai se dovessero tirare fuori la grana, discorsoni dei capi che ringraziano tutti i presenti in formule retoriche che in realtà servono ad autoincensarsi e cose così.

Il pranzo di lavoro invece è una roba “Menu fisso 1 primo + 1 contorno + acqua o bibita piccola + caffè = 10 euro”. Una cosa del genere. Infatti è una roba dove si va in quattro al massimo. In una mensa non lo pubblicizzano neppure. E’ la regola. Diciamo che è una formula usata dai ristoratori che significa più o meno

“Questa non è mica una cazzo di mensa, questo è un posto di classe. Però, cari i miei straccioni, se volete venire a mangiare qui nel mezzogiorno sono disposto ad arrivare a questo compromesso, anche perché altrimenti mi tocca chiudere”.

Oppure, se letta nei bar, significa più o meno:

“Si, lo so che c’è scritto BAR. Però guardate che abbiamo un forno a microonde, non vi siete rotti le palle di farvi pelare per mangiare ai tremila chilometri all’ora, che tanto dovete tornare SUBITO al lavoro e manco ve la godete? Arrendetevi”
(Infatti ogni tanto i bar scrivono PRANZI VELOCI, come se fosse obbligatorio andare al bagno a lavarsi le mani di corsa. Alcuni bar un giorno vi noleggeranno anche la tuta e le scarpette)

Io e l’uomo che suona la batteria nei miei dischi, CESARE ANCESCHI detto CICO, che è un uomo che incarna i valori del surrealismo più o meno in ogni azione che compie durante il giorno, abbiamo avuto un’idea che non era male, ormai diversi anni fa.

Ci siamo vestiti di tutto punto, con un completo figo, abbiamo preso delle valigette “giuste” con dentro dei grafici e dei fogli che non volevano assolutamente dire nulla, abbiamo comprato “IL SOLE 24 ORE” e poi ci siamo recati in un ristorante a fare un “pranzo di lavoro”. Un sabato, che in genere il sabato la formula “pranzo di lavoro” non c’è, che anche questa è bella.

Abbiamo pranzato mostrandoci i rispettivi grafici sul nulla (io avevo anche stampato gli accessi a questo blog e le chiavi di ricerca, giusto per fare qualcosa), dopodiché abbiamo iniziato a progettare il futuro dell’iniziativa. Ci siamo detti che avremmo dovuto riprendere l’usanza ogni anno, ogni volta invitando una persona la quale l’anno successivo avrebbe dovuto invitarne un’altra e così via, in una costruzione piramidale che nei nostri sogni più rosei mirava, nel giro di quindici anni, ad aver bisogno di un hotel con centro congressi, dove noi due che eravamo i fondatori avremmo tenuto una relazione sul brillante successo di una iniziativa deliberatamente inutile che aveva come unica caratteristica base la totale stupidità da parte dei partecipanti.

Purtroppo non abbiamo mantenuto la promessa e dopo quella prima edizione, nella quale eravamo gli unici due partecipanti, abbiamo lasciato cadere la cosa pur ripromettendoci ogni volta che avremo dovuto ricominciare facendola diventare una consuetudine.

Nessuno, all’interno del ristorante, ci ha chiesto che lavoro facessimo. Nessuno ci ha chiesto la partita Iva. Ci siamo chiesti allora che pranzo di lavoro fosse, dal momento che veniva applicata la formula esclusivamente sulla fiducia. Tant’è che il mio commensale, in quel periodo, era disoccupato. Eppure alla cassa chiesero “Vuole la fattura o basta la ricevuta?” solo perché eravamo vestiti bene e avevamo dei fogli in mano per tutto il pranzo, che ci passavamo dicendo frasi a caso tra gli sguardi interessati dei tavoli a fianco, conquistati grazie alle espressioni serissime che avevamo mentre pianificavamo i nostri deliri Post-Marxisti (nel senso di Groucho).

Non so perché vi abbia raccontato questa cosa, forse solo perché a noi faceva ridere molto. Ma credo anche perché, se incominciamo a chiamare le cose con il loro nome, probabilmente sarà meno facile per i primi due imbecilli che passano, fingersi quello che non sono.

O forse cercavo solo adesioni :-)