Io l’avevo detto subito.

Io c’ero. E io l’avevo detto.

Li vidi entrare in scena. Tutti e tre. Era il loro primo concerto. Sapevano a malapena suonare gli strumenti che si erano scelti. Basso, chitarra e batteria. La bassista suonava seduta, perché in piedi diceva che non le riusciva. Faceva soltanto la nota singola. Mai un riff. Mai. Il batterista suonava sempre un quattro quarti tutt’altro che metronomico e con minuscole variazioni. Mai una rullata, o quasi. Il chitarrista ogni tanto partiva per la tangente mettendo le dita un poco dove veniva o faceva riff estremamente semplici. Per il resto si limitava a fare gli accordi, suonati tutti con la sola pennata in giù. Mai un barré. Mai.

Dopo un minuto tra il pubblico c’era qualcuno che rideva e ad un certo punto alcuni amici della bassista si alzarono per andare ad applaudirla proprio davanti a lei con una specie di tifo da stadio improvvisato, una cosa che se vieni da fuori non capisci mai dove finisce l’affetto e inizia la presa in giro.

Fecero un set di circa trentacinque minuti, con tutti brani originali e una cover di “Summer babe” dei Pavement.  Ora, io posso dirlo che ve l’avevo detto. Perché erano la band più figa che avessi mai visto. Avevano l’indolenza dei Pavement e la faccia tosta dei Ramones. E le canzoni erano buone. Semplici, dirette, senza niente più del necessario.

Glielo dissi, che erano i migliori. Dissi che volevo una copia della cassetta sulla quale avevano registrato il loro concerto. Il primo.

Qualche mese dopo passai nella loro sala prove, stavano registrando un demo. Facevano questo pezzo che avevano chiamato “Erotic City (By Sarah Young)” come un sexy shop che avevano visto a Berlino. Mi dissero “Vuoi suonare?” e io risposi “Si, però la batteria”. Non avevo mai suonato la batteria in vita mia. Mi piaceva molto fare finta mentre andavano i dischi, con due bacchette da ristorante cinese che picchiavano l’aria dove la mia mente aveva messo dei tamburi. Ogni tanto nelle pause delle prove delle band che avevo avuto provavo a suonicchiare la batteria e insomma, qualche cosa ci cavavo fuori. Ma non avevo mai registrato un pezzo suonando la batteria.

Suonai. Buona la prima, o la seconda. A loro piacque, il pezzo finì sul demo con me come batterista. Ci pensai tanto a quanto era stato figo suonare la batteria con loro.

Dopo qualche mese mi vennero a dire che il batterista aveva intenzione di passare alla chitarra perché alla batteria si annoiava. Mi dissero, più o meno, che cercavano uno che suonasse la batteria e non un batterista. Capii perfettamente cosa intendevano. Accettai subito, non vedevo l’ora che me lo chiedessero. Il fatto di non possedere una batteria non mi appariva come un serio impedimento. In sala prove una batteria c’era. Avrei usato quella.

Funzionavamo alla grande. Suonavamo canzoni semplici e dirette, senza fronzoli, con linee melodiche orecchiabili e strutture semplici. Intanto la bassista aveva imparato a suonare in piedi e di tanto in tanto cantava. Cantavano tutti e tre. Spesso insieme.

Iniziammo a suonare dal vivo in quartetto. Andavamo forte. Ogni concerto andava sempre meglio, il pubblico aumentava sempre. Nel giro di un anno arrivammo a suonare davanti anche a centinaia di persone. In generale quando suonavamo succedeva che c’era sempre qualcuno che si metteva a ballare o a ondeggiare con la testa e alla fine vendevamo un sacco di demo. Avevamo fatto un demo su cassetta che vendeva talmente bene che il nostro chitarrista aveva dovuto comprarsi una piastra doppia che usava solo per duplicare i demo o almeno così mi ricordo io.

Arrivavamo a suonare in tutti questi posti dove ci trovavamo a dividere il palco con band con competenze decisamente maggiori delle nostre. Una volta un fonico, dopo avermi visto infilare un piatto senza fissarlo con il sostegno di sopra e dopo avermi fatto delle domande alle quali non sapevo rispondere mi disse “Ma ascolta, il batterista quando arriva?” e dovetti spiegargli che ero io il batterista della band. Lui fece una faccia come dire “O mio Dio!”.

Dividevamo il palco con gente che disquisiva delle differenze tra un compressore di una marca e quello di un’altra per una mezz’ora, che faceva assoli su assoli e che quando vedeva le nostre chitarre economiche a volte si faceva una risata. Io mi trovavo davanti batteristi con il doppio pedale che mi chiedevano cose sull’accordatura del rullante e in generale facevano delle domande alle quali non sapevo minimamente rispondere, arrivando anche a sfottermi nemmeno troppo velatamente quando capivano che non avevo idee precise sull’argomento “montare la batteria”.

Poi  però succedeva che salivamo sul palco e li facevamo a pezzi. Eravamo una band di quelle che non ti conviene suonare dopo, detto senza false modestie.

Continuò così per un paio di anni, nei quali io cominciai di tanto in tanto a sentire male alle braccia quando suonavo. Sempre più spesso e dopo ogni volta che suonavo il dolore aumentava. Finché nel maggio del 1997 dopo un concerto il dolore non passava. Un dottore mi disse di prendermi una pausa, mi fece fare degli esami, mi disse che non avrei mai più dovuto suonare la batteria in maniera continuativa se ci tenevo ai miei gomiti e che quantomeno avrei dovuto stare fermo un bel po’. Le braccia mi facevano male persino a guidare la macchina. Tanto.

Consigliai loro un batterista, un ragazzo che suonava con una band di amici con i quali ci eravamo incrociati spesso. Dissi loro “Lui secondo me per voi va bene” e il solo fatto di dire “Voi” per dire la band mi faceva stare male. Perché avevo capito che era finita.

Era vero. Andava bene. Eccome se andava bene. Con lui di lì a pochissimo avrebbero registrato il primo album. Nel primo disco diverse parti di batteria ricalcavano le mie (anche se erano suonate molto meglio) e la cosa mi faceva piacere. Il disco era stupendo e infatti se ne accorsero tutti. Il gruppo cominciò a finire sui giornali specializzati, poi su Mtv quando finire su Mtv era la differenza tra essere un gruppo nel calderone e un gruppo come si deve.

E’ dura essere al settimo cielo per come vanno le cose ai tuoi amici e sentirti una merda perché tu dovevi essere lì e invece non ci sei. E’ dura da matti. E’ come zucchero e sale insieme.

Poi ne fecero un altro di dischi. Il consenso crebbe ulteriormente. Una sera ero al Velvet a Rimini e misero un loro pezzo e la pista si riempì di colpo, come quando metti “Smells like teen spirit” o “Killing in the name”. Zucchero e sale, anche qui.

Poi iniziarono ad includere nuovi musicisti e a stravolgere la formazione. Stravolsero poco a poco anche la loro musica, disco dopo disco, cambiando sempre la loro proposta.

Oggi sono forse il gruppo, tra gli “indipendenti”, che gode di maggior rispetto in tutta Italia. Hanno suonato in tutti i posti più importanti, hanno fatto dei tour in Europa, i loro dischi vengono distribuiti all’estero. Hanno collaborato con grandi musicisti, compreso alcuni compositori d’avanguardia americani piuttosto celebrati. Ogni tanto mi chiedono di suonare o cantare con loro e se non ho impegni dico subito di sì, perché suonare con loro è fighissimo.

Beh… io l’avevo detto subito. Dal primissimo momento che li avevo visti suonare insieme, la sera del 28 Maggio del 1994, esattamente venti anni fa al teatrino della casa nel parco di Sassuolo.

 

La cassetta con il bootleg del primo concerto dei Julie’s Haircut al Teatrino della Casa nel Parco di Sassuolo è solo per oggi disponibile al link

http://julieshaircut.bandcamp.com/album/live-at-fahrenheit-451-28-05-1994

Credo, senza esagerare, che sia un documento di notevole importanza storica per la musica del nostro paese. Il fatto di averla conservata per vent’anni e di esserne a tutt’oggi l’unico possessore mi rende particolamente orgoglioso, inutile negarlo.