Dischi che mi rimetto in macchina – #2

Lisa Germano – Happiness (4AD)

Ci sono dei dischi ai quali non serve essere i migliori del lotto, semplicemente ti hanno incontrato al momento giusto e hanno fatto breccia nel tuo cuore e te li porti dietro, dischi ai quali sei affezionato e che per te valgono tanto, ai quali riconduci anche precisi ricordi. Questo disco per me ha una data precisa: 5 agosto 1994. La sera del giorno prima ritornavo in caserma a Padova, dove il giorno successivo avrei salutato tutti per andare a prendere il congedo a Montorio Veronese, dove c’era il mio corpo di appartenenza. Avrei preso il congedo e sarei andato a casa. Partii da casa senza la solita scorta di cassette per il walkman, visto che tanto sarei tornato a casa subito. L’unica cassetta che mi tirai dietro fu di un disco che avevo registrato in radio durante la mia ultima licenza. Max Teneggi, voce storica di Antenna Uno Rock Station, ne aveva messo un pezzo che mi era piaciuto e l’aveva descritta come “Una Suzanne Vega un poco più acida o una Kendra Smith un poco meno cupa” e quindi mi feci dare il cd, andai nella saletta, lo misi sopra a una C-60 e lo portai con me. Era un bel disco, strano e coinvolgente, pieno di belle canzoni e con arrangiamenti e un suono decisamente etereo e particolare.

Lisa Germano è una musicista che nella seconda metà degli anni ottanta ha suonato il violino con un sacco di gente. Ha partecipato al progetto “OP8” insieme a quelli che sarebbero poi diventati i Giant Sand e i Calexico, è stata in tour con John Mellencamp, ha suonato addirittura con i Simple Minds. In mezzo a tutta questa gente, ad un certo punto arriva anche per lei l’occasione. La Capitol Records, una major, si offre per produrre questo album. Il disco esce nel 1993, siamo negli anni in cui le major fanno fare un disco a chiunque nel mondo del rock alternativo perché non si sa mai che si perdano i nuovi Nirvana o i nuovi R.E.M. e quindi tutti dentro. L’album esce, non va granché bene, la Germano ha pezzi melodici ma intrisi di echi e riverberi, anche le cose che avrebbero un potenziale commerciale sembra che siano sabotate dall’interno, ci sono muri di chitarre riverberate, atmosfere ipnotiche e oniriche, il grande pubblico non saprà mai che farsene. Nel 1994 la Capitol ha già perso interesse ma il disco esce in Europa tramite la 4AD di Ivo Watts-Russell, l’etichetta giusta per la Germano, le cui scorribande possono in effetti stare a metà tra Throwing Muses e This Mortal Coil, almeno dal punto di vista timbrico. Il disco esce con una scaletta diversa dalla versione della Capitol. Alcuni pezzi vengono tirati via e altri vengono aggiunti. Non ho mai sentito la versione su major. “Happiness” è un disco oscuro ma con canzoni memorabili. E’ intriso di un pessimismo e un cinismo che si respirano fin dal titolo della prima canzone in scaletta, chiamata appunto “BAD ATTITUDE”. Il primo verso è uno degli incipit più crudeli che io abbia mai sentito in vita mia per un album. La voce sospirante della Germano canta “You wish it was sunny but it’s not, ha ha ha” (Volevi che ci fosse il sole e invece no, pappappero, più o meno). In tutto il disco la batteria sembra sempre staccata dal resto degli strumenti, il basso a volte va beatamente per i cavoli suoi (Energy, Destroy the flower), ci sono dei bordoni di chitarre tra un brano e l’altro dei quali si fatica bene a comprendere l’utilità, c’è una ballata romanticissima che io avrei visto bene fatta dai Flaming Lips (Cowboy), c’è un pezzo monocorde con un incedere marziale e dei bordoni di violino che profumano di New Wave (Puppet, Everyone’s victim), c’è una spigolosa giostra dei sensi (Sycophant), c’è un poco di country in cadenza plagale (The dresses song) ci sono alcune ballate veramente ben fatte che suonano come se Rickie Lee Jones cantasse sott’acqua (The Darkest night of all). E’ un album cupo e notturno, spettrale e nebbioso, decisamente la cosa più lontana da un pomeriggio afoso in pieno sole d’agosto.

Arrivato a Verona, scoprii che non tutti ci congedavamo lo stesso giorno. A differenza di tante caserme, dove la giornata di congedo di uno scaglione era la stessa anche se la partenza era divisa in due giorni diversi, lì ci si congedava in due giorni. Quindi, se eri partito il 18 ti saresti congedato il 5 agosto, se eri partito il 19 (come me) allora te ne potevi andare il 6. Mi toccava rimanere un giorno intero in questa caserma dove non conoscevo nessuno, ci avevo fatto 6 giorni a settembre dell’anno prima. Una caserma enorme, 14.000 unità e 8 km di perimetro, “La più grande di tutta la regione militare nord-est”, si diceva con malcelato orgoglio. Mi assegnarono una branda, mi ci misi sopra e non mi mossi per tutto il giorno. Era agosto, faceva un caldo porco, non avevo un libro, non avevo niente da fare, avevo solo un walkman con una cassetta. La ascoltai per tutto il giorno, ininterrottamente. Ad un certo punto, verso le 16, le pile del walkman cominciavano a scaricarsi e quindi le rotelle del walkman iniziavano a girare più piano. Quindi iniziai ad ascoltarlo una canzone alla volta, con pause di cinque minuti tra un pezzo e l’altro, durante le quali non facevo assolutamente nulla. Alle 18 scattava la libera uscita, andai in centro a Verona a comprarmi una maglietta, visto che la mia era sudatissima, avevo solo quella e avevo già dato tutti i miei vestiti militari in casermaggio. Una volta cambiato, comprai delle pile nuove per il walkman e poi partecipai alla cena finale dello scaglione, anche se non conoscevo praticamente nessuno. Non ricordo il nome del ristorante dove andammo, so che a un certo punto girava tanto di quel vino che qualcuno vomitò per terra e in tre o quattro iniziarono a tirare il vino direttamente dalle bottiglie addosso agli altri, c’erano le pareti bianche con i segni rossi di vino, passai l’ultima mezz’ora a vergognarmi molto di essere lì; il proprietario minacciò di chiamare la polizia, cosa che non ci potevamo assolutamente permettere in quanto ancora soldati dell’esercito, pagammo un conto decisamente salato fatto ad hoc dall’oste per rientrare nei casini che avevamo combinato. Il ristorante era dentro un complesso dove c’era anche un laghetto da pesca e in due o tre di noi pensarono bene di buttarsi dentro il lago completamente vestiti. Uno di noi, penso un tipo di nome Salvatore ma potrei sbagliarmi, perse il portafoglio dentro al lago. Dentro al portafoglio c’era il tesserino militare, se non lo restituivi non ti congedavi. Non so come andrò a finire, credo che fece la denuncia di smarrimento in caserma come se qualcuno al ristorante gli avesse fregato il portafogli, gli ufficiali chiusero un occhio, cose così.

La Germano ha pubblicato altri dischi, ha avuto un periodo nella seconda metà degli anni 90 in cui sembrava che stesse per succedere qualcosa anche dal punto di vista commerciale, invece niente. Le uscite si sono fatte sempre più rarefatte, ha lavorato come commessa, ha inciso per la Young God di Michael Gira, ha continuato a fare la turnista suonando con gente del calibro di Eels, Yann Tiersen e addirittura David Bowie. Nonostante le collaborazioni di grido, la sua attività ha avuto un profilo sempre molto basso con una attività di concerti propri in locali sempre molto piccoli. I suoi dischi si sono fatti sempre più eterei e sognanti, con sempre meno concessioni alla canzone pop classica. Ha più volte detto che “Happiness” è il suo disco più brutto, che non la rappresenta per niente. Al momento in cui scrivo ha sessantuno anni e sembra completamente sparita dal mondo da sette.

La mattina del 6 agosto 1994 mi alzai, mi lavai a pezzi visto che non avevo nemmeno preso da fare una doccia, andai a prendere il congedo, lo infilai nella borsa. All’uscita, visto che mi ero tagliato i capelli cortissimi come le burbette e visto che lì nessuno mi conosceva, il capoposto mi disse “Oh, dove credi di andare, rospo?”. Tirai fuori il congedo dalla borsa e gli dissi “A casa” e ricordo ancora la sua faccia. Presi il treno che arrivava a Modena, mia madre mi aspettava con la macchina, andammo a casa, pranzai. Dopo pranzo realizzai che i miei amici erano tutti in ferie, in bar non c’era nessuno, non sapevo cosa fare. Telefonai a un paio di miei commilitoni e facemmo due chiacchiere per telefono, anche loro avevano la stessa sensazione di vuoto, di “E adesso?” che avevo io.

Avevamo aspettato questo giorno così tanto che ora non sapevamo cosa farcene.