Speriamo di no.

Sarà che per ora sono costretto a lavorare e quindi lavoro e poi vado a casa e sto in casa senza mai uscire, poi vado a lavorare e sto in casa senza mai uscire e tutti si sono fatti sospettosi ma allo stesso tempo leggeri come se a loro il virus non gli saltasse in groppa per andare a far danni da qualche parte, sarà che sto invecchiando e ognuno invecchia come è capace.

Fatto sta che non sopporto gli inni di Mameli alla finestra, i Va Pensieri, i Nessun Dormi, gli Il cieli è sempre più blu, gli Azzurri di Celentano, le dirette facebook dove suonano tutti e suonano molto male, quelle dove invece di rivolgersi ai loro vicini dal balcone quelli che suonano poi si voltano e guardano la telecamera su Facebook, tutta questa voglia di allegria e di amore che mi sembra che più se ne vuol fare vedere e meno ce ne sia, insomma tutte quelle robe lì

Tra quindici giorni inizierà a morire della gente che conosciamo.

 

Ci sono dei giorni che penso, penso, e non concludo niente

Ieri sera una serie iniziava con una famiglia che andava da qualche parte mentre il padre ascoltava “Dancing in the dark” di Springsteen esaltandone la carica e il figlio diceva una roba del tipo “Cos’è questa merda?” evidenziando quanto fosse moscia.

E’ un classico esempio delle distanze tra le generazioni in fatto di musica, una cosa normale.

 

Per dire, io ogni tanto penso che quest’anno sono passati 30 anni dal 1990.

Io nel 1990 avevo 18 anni. Quest’anno ne farò 48.

Ogni tanto penso che sono trent’anni che è uscito “Goo” dei Sonic Youth, tanto per dire un disco.

Ogni tanto penso che trent’anni (29, ma facciamo finta che sia uguale) sono la distanza che separa “Goo” da “Love me do” dei Beatles.

Ogni tanto penso che io a 18 anni ho comprato “Goo” dei Sonic Youth ma ascoltavo anche “Love me do” e mi piacevano tutte e due parecchio.

Ogni tanto penso che la musica non ha una data di scadenza e che non è nemmeno necessario che la musica che ascolti rispecchi la musica che fai.

Ogni tanto penso che in realtà la musica che ascolti rispecchia quella che fai eccome, semplicemente siamo abituati a considerare soprattutto il timbro e trascuriamo le altre caratteristiche. Per fare un esempio, tra “I sonnambuli” e “Troppo tardi” ho passato 4 anni dove ascoltavo quasi solo musica classica e non ne ho pubblicata nemmeno un secondo, tuttavia nei miei dischi sono presenti piccoli accenni melodici e armonici che ho copiato (e variato appena appena) da compositori dell’ottocento e del novecento e che sono stati inseriti nell’ambito del “cantautorato” (parolaccia che si usa per capirsi). Direi che è anche normale che nessuno se ne sia accorto, io non me ne accorgerei se lo facessero altri se non per puro caso, o quasi.

Questo per dire che, delle volte, tanto vale non mettersi troppo a pensare a queste cose da studiosi della musica o da critici, visto che i critici lo fanno i critici e io voglio solo scrivere delle canzoni raccontando delle storie e suonarle.

 

O forse volevo dire un’altra cosa, ma non mi ricordo e non mi interessa già più.

E di colpo venne il mese di febbraio…

Passato un primo mese dell’anno nel quale ho suonato parecchio, si prosegue sulla stessa falsariga per il mese di Febbraio. Di solito non suono mai durante il festival di Sanremo e lo spiegai anche in un vecchio post di questo blog.

Quest’anno ho deciso di fare diversamente e suono addirittura due volte. Forse è un suicidio, ma è un rischio che ogni tanto fa bene correre e quindi vedremo come va a finire.

Sto anche, molto ma molto lentamente, ricominciando a scrivere qualche canzone. Sto mettendo mano più che altro a cose vecchie che ancora non conoscete e sto provando a vedere di metterci un testo nuovo. E’ una cosa che ho fatto anche con “Tradimento” nell’ultimo album. Comunque siamo ancora a un livello embrionale e quindi non è il caso di allarmarsi. A suonare in giro mi sto divertendo molto, sto conoscendo delle brave persone e in generale l’umore è decisamente positivo. Sto aspettando la mazzata che arriva di solito in questi casi. Arriverà, probabilmente. Intanto avanti così.

2020 (10 anni)

Sono passati dieci anni da quando porto le mie canzoni in italiano in giro per il paese. In questi dieci anni ho suonato praticamente ovunque. Ho suonato in un locale fighissimo pieno di gente ma anche in un locale vuoto con tre persone. Ho suonato in un deposito di biciclette, in un negozio di scarpe, in uno di occhiali, in un centro di yoga, ho suonato in televisione, alla radio, nei teatri, di spalla a nomi grossi e insieme a nomi piccoli, insieme a nomi piccoli che poi sono diventati grossi e a nomi piccoli che sono rimasti piccoli e basta. Ho suonato, più di ogni altro posto, nei bar. Come dico sempre, “tutto quello che ci vuole sono una stanza e un po’ di voglia”.

In questi dieci anni si sono alternati, spesso in maniera fitta e violenta, momenti di grande esaltazione e momenti di grande avvilimento. Se guardo indietro, forse questo alternarsi violento e implacabile è l’unica cosa veramente costante che mi ha accompagnato.

In questi dieci anni ho avuto persone che mi hanno visto suonare anche trenta volte, altre che hanno fatto centinaia di chilometri per conoscermi e sentirmi, altre alle quali ho dato semplicemente fastidio mentre bevevano qualcosa e chiacchieravano. Di questi ultimi, in qualche episodio decisamente rimarchevole, è rimasto anche l’eco del momento in cui me lo facevano notare.

Dopo dieci anni viene la voglia di fare anche dei bilanci. Credo che il prossimo anno sarà un anno decisivo. Nel senso che, se c’è una cosa che veramente vorrei capire, è “cosa lo stai facendo a fare”. Penso sia l’anno giusto per capirlo, visto che oramai non ci sono più tante cose che quando ho cominciato a fare le mie canzoni in italiano erano ancora lì e in alcuni casi ci sembrava che dovessero esserci per sempre.

E’ il momento giusto perché così vedremo davvero “cosa voglio dalla musica”, per capire se devo raccogliere ancora qualcosa o se devo soltanto cominciare a portarle rispetto.

Non so come andrà a finire. Di solito, quando si comincia una cosa così, va a finire bene. Ma quando si comincia una cosa così, di solito, prima di andare a finire bene deve succedere che ti togli qualcosa dallo zaino che ti stai portando in giro per capire cosa non ti serve durante il tuo cammino. A volte scopri che non ti serve più lo zaino, che non hai più voglia di portarlo in giro. A volte succede che non vuoi più camminare e basta.

Vedremo.

 

L’INVENZIONE DELLA TRADIZIONE

Gira questo video dove Mario Giordano spacca delle zucche con una mazza da baseball dove ha fatto dipingere i colori della bandiera italiana.

La cosa starebbe a simboleggiare il fatto che Halloween è una tradizione non italiana e quindi non è bello festeggiarla.

E’ una reazione che anni fa abbiamo avuto tutti la prima volta che abbiamo sentito “Dolcetto o scherzetto?” alla porta di casa, è abbastanza umana. A me capita anche quando vedo uno che spezza gli spaghetti.

E’ una reazione umana e comprensibile. Ma è sbagliata.

Non è per Halloween, chi se ne frega.

E’ proprio che il concetto di tradizione come valore di per sé è una cosa sbagliata.

La dimostrazione sta proprio in quello che fa Giordano.

Prende delle zucche e le spacca con una mazza da Baseball.

Da Baseball.

Provate a chiedere a un italiano come si gioca a Baseball. Le regole, quanto dura una partita, in quanti si gioca in campo per squadra, quali sono i ruoli, cosa bisogna fare per segnare un punto, quanti inning si giocano e quanti out ci sono ogni inning per parte, cos’è un bunt, una volata di sacrificio, un doppio gioco, un’infield fly.

 

No, vero?

 

Ecco, Giordano ci ha fatto dipingere i colori della bandiera italiana e la mazza da Baseball (DA BASEBALL) è diventata il simbolo dell’Italia per due minuti e mezzo.

Questa è la tradizione. E’ una cosa nuova, che per un motivo qualsiasi (in questo caso per il fatto che la mazza da baseball è un buon attrezzo per spaccare delle zucche) si consolida e viene, pian piano, accettata. Poi, in un secondo momento, passa di generazione in generazione e diventa, appunto, tradizione.

Insomma: LA TRADIZIONE E’ UNA INNOVAZIONE RIUSCITA MOLTO BENE.

Vorrei dare un consiglio. La prossima volta, dipingete le zucche di bianco, rosso e verde.

Fate prima e soprattutto non deve esserci uno sguattero che pulisce il merdaio che avete fatto a 6€ l’ora.

Cose che sono successe da fine settembre a oggi 23 ottobre

E’ uscito il disco nuovo, “I ferri del mestiere”, trovate il link nella sezione “Discografia”. Il disco è in cd o in vinile, oppure potete ascoltarlo su Spotify. Se me lo volete chiedere per posta, ve lo mando.

Ho cominciato a suonare nei posti, trovate i link nella sezione “live”. Ai concerti il disco si trova, non abbiate paura di chiederlo.

Venerdì 25, ascoltiamo il disco a Chiozza di Scandiano da “Reggio Hi-Fi”. Facciamo 3 sessioni di ascolto in alta fedeltà, con un impianto della madonna che Paolo Codeluppi, il titolare del negozio, ha ritenuto essere il migliore possibile e lo ha fatto con competenza, visto che non avevo mai sentito un disco così bene. Se volete venire, dovete prenotarvi mandandogli una mail a info@reggiohifi.it.

C’è una maglietta di colore rosso tipo quello del Campari con una scritta bianca e una frase di “Spiritosi”, un pezzo dal nuovo album che dice “Aperitivo? Ma per piacere, si dice cominciare a bere” e la potete trovare al Galaxy Beer Shop di Rubiera (RE). Se gliela chiedete per posta, ve la spediscono.

Sono uscite alcune recensioni del disco: Blow Up e Rumore su carta a cura, rispettivamente, di Federico Guglielmi e Stefano D’Elia. Poi ce n’è una di Stefano Solventi su “Sentire Ascoltare” che potete trovare qui.

Un quotidiano locale ha preso un mio comunicato stampa riguardante il disco, lo ha fatto passare per una sua intervista e poi ha messo, come mia biografia, una di quelle generate a caso dal “Frigieneratore”. La cosa fa molto ridere e la dice lunga su come sia ridotto il giornalismo, quasi peggio della musica rock.

Vi ricordo che se volete farmi suonare, basta mandare una mail qui e chiedermelo e vedrete che ci mettiamo d’accordo. Io suono anche senza nessun impianto, in casa vostra, se volete. Certo, con un impianto è meglio, ma è per ribadire che bastano soltanto una stanza e della voglia, cosa che mi sembra non sia chiara pur ripetendola centinaia di volte.

Statemi bene.

 

Pavia Dylan

Stamattina c’è stata un’esplosione in una raffineria dell’Eni a Sannazaro de’ Burgondi, in provincia di Pavia.

Visto che non ci sono morti o feriti, mi permetto di dire che io, ogni volta che sento il nome “Sannazzaro de Burgondi” penso sempre che sia scritto “Burgundi” e mi viene da cantare:

“I started out on burgundy but soon hit the harder stuff”

Potreste pensare che… (In morte di Ric Ocasek, abbastanza a caso)

Feci la conoscenza dei Cars nel 1984. Avevo 12 anni e guardavo tantissimo “Videomusic” e c’era questo video dove, se mi ricordo bene, c’era anche una macchina che volava con loro sopra o un mostro che teneva una macchina in mano, insomma…lo dovrei riguardare (Quando scrivo questi post qui non è che ricontrollo, spesso scrivo come mi ricordo le cose e se me le ricordo male beh, pazienza, tanto si fa tanto per scrivere delle cazzate e penso che si capisca).

La canzone di chiamava “You might think” ed era parecchio ritmata e con un bel ritornello melodico e mi piaceva; era una di quelle che, quando io e i miei amici guardavamo Videomusic, alzavamo il volume e stavamo impalati lì allo schermo. Il cantante era un tipo con una faccia buffa e allampanata, uno di quelli che ti ricordi la faccia.

Una sera stavo guardando “Deejay television” e il veejay (non so se fosse Gerry Scotti o chi per lui) disse che era uscivo il nuovo singolo dei Cars, che si chiamava “Drive” e che adesso ci faceva vedere il video.

Quando partì il pezzo io pensai che si fossero sbagliati. La canzone era lenta e melensa, non aveva il ritornello ma era una ballata circolare, il video era in bianco e nero, la voce non era mica quella che cantava l’altro pezzo.

Poi invece nei giorni seguenti venne fuori che era vero che erano i Cars, si vede che nei Cars cantavano un poco a turno. A me questa cosa del cantare un poco a turno, a parte i Beatles, i Clash e pochissimi altri, non è che mi abbia mai convinto granché.

Quella canzone lì, sarà stato perché non mi sembrava mica che fossero loro o non so, a me faceva schifo. La sentivi dappertutto e la cosa mi dava anche da fare, come quando senti sempre una canzone che ti fa schifo.

Da lì in avanti, così come non sapevo chi fossero prima del video di “You might think”, i Cars per me cessarono di esistere.

Crescendo, ogni tanto mi ritrovavo qualcuno che li citava come influenza e, spesso, quando sentivo un gruppo che si dichiarava influenzato da loro, li andavo ad ascoltare ma non mi piacevano mica granché.

Ogni tanto, quando andavo a imbattermi in un pezzo prodotto da Ric Ocasek, pensavo “Che suono di merda, per forza è Ric Ocasek” e a volte invece pensavo “Cazzo, che bel suono. Eh beh, Ric Ocasek, una garanzia” e ogni volta mi sembrava naturale pensare quella cosa lì come se non avessi mai pensato l’altra.

Quella canzone che mi faceva così schifo diventò il loro successo più grande, un classico tra i classici, una delle canzoni più immortali degli anni ottanta. Nel corso degli anni, quando la sentivo, piano piano ho imparato a non cambiare stazione e poi ho capito che la canzone è proprio bella.

Però, quando la sento in un programma radio che poi dicono solo “E questi erano i Cars con la loro DRIVE” e poi non dicono che è strano che non la cantasse Ric Ocasek, penso sempre che quello che sta trasmettendo faccia il mestiere sbagliato. Tipo che stamattina, quando ho saputo che era morto, mi son detto che oggi un casino di Radio generaliste metteranno il pezzo e ci sarà qualcuno che dirà “la voce del grande Ric Ocasek in questa DRIVE…” e secondo me bisognerebbe, se vi accorgete che oggi qualcuno lo fa, non dico proprio sputtanarlo, ma almeno cambiare stazione, ecco…quello sì.

Dischi che mi rimetto in macchina – #1

Era il 1992 e tutti i dischi che uscivano dal Regno Unito avevano o la batteria simil funky alla Stone Roses-Charlatans-Happy Mondays oppure avevano le chitarre a manetta che grattugiavano e fischiavano, doveva ancora arrivare quella cosa che poi hanno chiamato BritPop, o magari era già arrivata ma ancora non lo chiamavamo così. Per dire, il primo album dei Blur aveva un paio di singoli (“Bang” e la meravigliosa “There’s no other way” che si ballava alla grande) che avevano la batteria alla Manchester che faceva tum tum cha tu ta tu ta tum cha.

 

Arrivò questo disco di questo gruppo che si chiamava Boo Radleys e l’album si chiamava “Everything’s alright forever”. C’erano anche dei singoli ma non me li ero mai cagati. Il disco aveva una copertina molto colorata e caleidoscopica di base arancione e dentro c’erano questi pezzi decisamente rarefatti come suono e con le voci non in primo piano e le chitarre a manetta, che quando partivano le chitarre così forte la batteria non la sentivi più.

 

Me lo registrai su una cassetta da cento minuti, 50 per lato, dall’altro penso di averci messo “Love of life” degli Swans ma potrei sbagliarmi. So che ci avevo messo un disco che volevo tanto sentire e invece quello dei Boo Radleys ce lo avevo messo tanto per metterci qualcosa, quando trasmettevo in radio capitava spesso che mi registravo dei dischi tanto per dargli una ascoltata e poi magari la settimana dopo ci registravo sopra.

 

Iniziai a sentire l’altro lato, quello con “Love of life” almeno credo e poi, una sera, dopo essermi fatto un bel cannone prima di andare a dormire, mi misi in cuffia l’album dei Boo Radleys.

 

Mi ricordo, tra le altre cose, che nel primo pezzo (Spaniard) ad un certo punto spuntava una tromba e non erano mica tanti i dischi pop che ascoltavo io dove c’era una tromba e, cosa più strana, quando entrava quella tromba lì io ho pensato subito “Vacca, senti che roba, che bello!”.

 

Poi mi ricordo che il disco scorreva via benino con qualche picco, tipo che l’ultimo pezzo del primo lato (Paradise o qualcosa del genere, dovrei ricontrollare) aveva le chitarre che ad un certo punto facevano un casino della madonna, tipo i Ride, insomma come nei dischi prodotti da Alan Moulder.

 

Poi mi ricordo che ad un certo punto c’era questa canzone che si chiamava “Song for the morning to sing” anche se io non lo sapevo, che non mi ero mica scritto i titoli, che quando è partita a metà del secondo lato io mi sono convinto che quel disco lì avrei dovuto ascoltarlo un bel po’ di volte che eravamo di fronte a un gruppo davvero bravo.

 

Poi il disco finiva, io il giorno dopo misi “Song for the morning to sing” in Radio, andando a vedere il titolo esatto sul vinile perché nel programma dovevo anche dire il titolo del pezzo.

 

L’ho ascoltato parecchio, poi tempo dopo uscì un singolo chiamato “LAZARUS” che era una specie di suite che partiva quasi reggae e poi diventava una cosa molto tipo i Beatles con una linea melodica e una introduzione di ottoni (ancora!) davvero notevole.

 

Quella canzone sarebbe stata anche, ma in una versione più corta almeno credo, nel loro secondo LP, che si chiamava “Giant Steps” come il disco di Coltrane e io me lo sentii mentre ero militare, registrato su una cassetta dove c’era soltanto quello e qualche pezzo alla fine del secondo lato di gruppi inglesi misti tipo Dr. Phibes & The House of Wax Equations o i Revolver, tanto per finire il lato.

 

Disco molto bello, più pulito del primo, penso di averlo messo come “disco dell’anno” nella playlist di fine anno mia anche se fu una cosa fatta più per compensazione del fatto di aver ascoltato il precedente dopo averlo escluso dalle playlist di fine anno e queste son cose che in radio ti senti di dover espiare.

 

Poi, qualche anno dopo, uscì “My friend Boo”.

 

Arrivai in radio con aspettative altissime e partì questa canzone che porco cane, sembrava un singolo dei Take That. Faceva schifo al cazzo. Ci rimasi malissimo. Li scaricai subito, ci misi una pietra sopra. Una roba tipo  vedere la tua ragazza che sta chiavando con un altro mentre ti ride in faccia.

 

Poi fecero un altro album, si chiamava “C’mon Kids” ma io non lo ascoltai neanche, basta. Con me avevano chiuso.

 

Ogni tanto, quando qualcuno tira in ballo i Boo Radleys, la prima canzone che salta fuori nel discorso da un sacco dei miei amici è quella merda di “Wake up Boo” e non avete idea di quanto questa cosa mi faccia incazzare.

 

(Ho deciso che tengo un solo disco in macchina alla volta, a parte quando faccio dei viaggi molto lunghi, e che ogni tanto ne parlo qui sopra. Questo è il numero uno ed è “Everything’s alright forever” dei Boo Radleys)