Qui le domande le faccio io: Intervista alla rovescia a Jori Cherubini (Mescalina, Arsenale 54, robe così)

Ho intervistato Jori Cherubini, dopo che aveva scritto una bella recensione dove trovava luci e ombre nel mio ultimo album. La recensione è all’indirizzo http://arsenale54.wordpress.com/2013/02/03/giancarlo-frigieri-togliamoci-il-pensiero/ mentre l’intervista la leggete qui sotto. Io sono quello che fa le domande, lui risponde.

D – Quand’è che hai cominciato a scrivere di musica e qual è stato il primo disco che hai recensito negativamente (e in che anno)?

R – Ho iniziato nel 2005. La colpa è stata del mio amico Luca d’Ambrosio reo di avere accettato la mia richiesta di collaborazione per la neonata Musicletter. Il primo album recensito negativamente coincide con il primo album che ho recensito: The Secret Migration dei Mercury Rev, 2005, a posteriori posso dire che l’unico suo “difetto” fu quello di essere uscito dopo l’onirico, imprescindibile All is Dream. In generale mi sembra una cosa abbastanza inutile perdere tempo con un disco che non ti piace.

La recensione che quando la leggi oggi pensi “Ho detto una cazzata”?
Saranno una mezza dozzina. Soprattutto quelle del primo periodo. A ripensarci scrivevo davvero male (non che adesso mi senta Lester Bangs). Recentemente mi è capitato con Coltivare piante grasse dei Med In Itali, buttata giù in fretta e furia per chiudere la rubrica: dopo averla riletta mi sono preso a schiaffi, troppo tardi.

D – Perché “Togliamoci il pensiero” è sconclusionata? Preparati che poi dirò io una cosa sfruttando il potere che ha avere l’ultima parola e ti farò fare la figura del fesso. Insomma, vestiti bene.
R – Di Togliamoci il Pensiero mi piace l’uso dell’armonica a bocca e la parte di testo dove canti “Moltitudini in piazza si indignano, vogliono una nuova società. Cani senza guinzaglio in cerca di un padrone che prima o poi li adotterà”. Il problema, a mio avviso, riguarda la sessione ritmica, la musica: scontata e monotona, cosa che non ti capita mai nel resto del disco. Come singolo avrei scelto Diversi dagli altri o l’altrettanto ottima La polisportiva.

D – La parte ritmica della strofa è pari pari quella di “Take me to the river” di Al Green, versione Talking Heads. Controlla il basso nella strofa. E’ proprio uguale. Ecco perché suona già sentita. Per il fatto che sia monotona, è vero. E’ un ostinato. Insomma, hai ragione tu. Dimmi invece tre versi del disco che ti hanno fatto pensare che sono proprio uno bravo.
R – Il primo verso, geniale e coraggioso, è quello che ho riportato nella recensione: “…la chiamano gente normale, che mangia biologico, che legge Repubblica e fatica a gestire la propria inutilità: davanti a ogni novità prevede catastrofi, che è razionalista e poi legge gli oroscopi, che vota convinta, che viaggia sicura, che ha piena fiducia nella magistratura, che veste di nuovo ma è sempre la stessa, che una massa critica è pur sempre una massa“; il secondo: “Perché per domare un uomo non c’è metodo migliore che farlo lavorare ogni giorno sulle nove o dieci ore” che mi ricorda la mitica Canzone della terra di Battisti. Poi “Quand’è che abbiamo barattato i nostri miti con una vita senza canditi?”. Aggiungo una quarta “Non c’è persona davvero cattiva al giovedì della polisportiva” frase che mi è rimasta in testa per una settimana e ogni volta che la sento mi trasmette allegria e voglia di prendere la tessera di questa benedetta polisportiva!

D – Un nome italiano di personaggi poveri (o indipendenti che dir si voglia) che meriterebbe di più, uno che meriterebbe quello che ha, uno che non ha niente ma meriterebbe ancora meno. Argomentando, si capisce.
R – Senz’altro Nicolas J. Ronca, il suo disco, Old Toys uscito nel 2012, è pieno di trovate incredibili, testi sagaci, arpeggi, e un’atmosfera generale che rilassa, stupisce e rimanda a epoche passate. Purtroppo è nato a Cuneo e non in California, altrimenti sarebbe acclamato come il nuovo Devendra Banhart, o una cosa del genere. Altro gruppo non (ancora) decollato a dovere sono gli IANVA. I Baustelle, sulla cresta dell’onda da più di un lustro, meritano quello che hanno. Sfruttando e migliorando le loro capacità sono riusciti a “sfondare”, e se vieni dalla provincia di Siena – dove al posto del rock esistono ramato e mietitrebbia (con il massimo rispetto verso entrambi, ci mancherebbe) – è una vera impresa. Un gruppo che non ha niente significa che non merita niente (nel 98% dei casi) o che ha troppa fretta di “arrivare” (nel 2%); ognuno ha quello che merita, anche al di fuori della musica. Un complesso che trovo sopravvalutato sono i Marta sui Tubi (a parte qualche pezzo oggettivamente riuscito, come Vecchi difetti, non mi hanno mai convinto, a partire dalla ragione sociale).

D – Hai letto quel che ho scritto sul Crowdfunding? Sei d’accordo o no?
R – Ho letto e sono d’accordo. Finirà nel dimenticatoio prima di ferragosto. Philip Roth sosteneva che “Non c’è niente che mantenga ciò che promette”, ecco, pressappoco.

D – Quand’è stata la prima volta che ti sei vergognato?
R – In prima elementare. Un momento cruciale. Coincise con la scoperta della ribellione verso la scuola. Eravamo impegnati in un lavoro di gruppo e intendevo partecipare a tutti i costi. Dovevamo tagliare un cartoncino bristol. Così impugnai saldamente le forbici per dare il mio contributo alla causa ma la maestra (di matematica) me lo impedì, prendendomele di mano, dandomi dell’incapace davanti ai compagni. Restai ammutolito. Vergogna sì, di pari passo alla scoperta dell’odio verso la matematica e la conseguente impellenza di esportare gli arti superiori alla docente in questione. A punirla ci pensò la vita: altra scoperta, la giustizia divina.

D – Se mi ridici che un mio pezzo è una b-side di Ligabue vengo lì con un bastone. Ritratta subito.
R – Non ritratto, rettifico: a me Ligabue piace. Il primo concerto che mi vide spettatore fu proprio quello del rocker di Correggio, a Siena nel 1996. In passato è stato autore di ottime canzoni (sia da esempio l’intero album Buon Compleanno Elvis) e anche il suo ultimo lavoro – Arrivederci Mostro (in versione acustica) – possiede degli spunti interessanti. Quindi, anche se ti sarà difficile, ti invito a prenderlo come un complimento, nonostante il “b-side”.

D – A me Ligabue sta simpatico, però non ci riesco ad ascoltare nulla per più di 30 secondi. E dire che andiamo anche nello stesso negozio di chitarre. Dimmi il concerto più bello che hai visto nella tua vita e quello che ti ha deluso di più.
R – Iggy & The Stooges a Budapest nel 2006. Mi aspettavo una reunion di vecchietti o poco più, invece hanno sprigionato un’energia quasi primitiva, arcaica, in grado di stordire una mandria di bufali. A deludermi di più è stato forse Vinicio Capossela all’Italia Wave di qualche anno fa, sentivo solo un gran frastuono e tanta polvere, non si capiva niente.

D – Se potessi suonerei (strumento) nei (gruppo). Riempi gli spazi.
R – Chitarra. Dream Syndicate (at Raji’s).

D – Mi spieghi cosa intendi per “Il passato di stroboscopiche (86)” che hai tirato in ballo per “L’altra”?
R – Essendo per fortuna impossibile recensire un album in maniera scientifica e rigorosa, talvolta, come in questo caso, ricorro alle suggestioni. L’impressione che ho provato ascoltando L’altra è stata appunto quella di trovarmi all’interno di una sala disco degli anni ’80. Precisamente al Club 71, unico locale del mio paese munito di mirrorball, pavimento multicolore a intermittenza e, appunto, luci strobo. E’ una sensazione dettata dall’inconscio (o dal subconscio, non ricordo la differenza, ammesso che vi sia e abbia rilevanza).

D – Dai una letta a “Cose che racconterò ai figli che non avrò di questi cazzo di anni dieci” sul mio blog e poi mi dici che cosa ho dimenticato di dire, di questo dorato mondo di morti di fame che chiamiamo “Rock indipendente”?
R – Personalmente ho fatto appena in tempo a vivere la fine di un’epopea. Quella di molti locali dispersi nelle colline della Val di Chiana. Esistevano l’Utopia e il Due Lune, splendidi poderi rustici adibiti a club underground. Non mi importava dover fare un’ora d’auto per arrivarci, in cambio ricevevo sempre bellissima musica e ottima compagnia. Al loro posto sono sorte discoteche asettiche, impermeabili alla cultura musicale e alla comunicazione. Il dilagare dei rave ha fatto il resto.

D – Al “Due lune” ci ho suonato con i Joe Leaman. Posto mitologico. Bevemmo tantissimo e finimmo giocando a ping pong alle 6 di mattina in casa del titolare. A proposito di locali, c’è un post sul mio blog chiamato “Cose che racconterò ai figli che non avrò di questi cazzo di anni dieci”. Mi dici cosa ho scordato secondo te?
R – L’accento su “iniziò”. Poi hai dimenticato di scrivere che la critica, in Italia, spesso è accondiscendente perché tutti si conoscono e si frequentano, se non nella vita reale almeno sui network. Così, pur di non farsi nemici, creare polemiche o perdere i dischi di qualche etichetta strampalata, spesso si preferisce scendere a compromessi e incensare gruppi mediocri che durano al massimo il tempo di uno Spritz. Se insisto a non ti risponderti è perché mi pare un articolo condivisibile, ben scritto, quindi esaustivo, che in buona sostanza racconta il rapporto fra voialtri strimpellatori e i gestori dei locali. Cos’hai dimenticato?

D – A dirla tutta ho dimenticato che te lo avevo già chiesto, quindi sono rincoglionito forte. Cambiamo argomento. La carognata più grande che hai fatto ad una ragazza nella tua vita è stata?
R – Certamente mi sono comportato male, soprattutto in passato, ma “carognate” credo di non averle mai fatte; o forse ho solo rimosso.

D – “Grappoli” non voleva essere una sincera ode alla bevanda nazionale, anzi ironizzava su quest’aura che si danno i vignaioli e gli intenditori di vino. Mi ha fatto specie che non si sia capito, perché non sei l’unico che ha detto la cosa. Dove ho sbagliato?
R – Ho sbagliato io. La frase “Il vino fa sangue, il vino fa bene, il vino fa cantare” mi ha tratto in inganno. Adesso che me lo fai notare, e che la sto riascoltando, mi rendo conto che non si trattava esattamente di un omaggio. Pardon.

Quanti dischi compri in un anno? Intendo dischi veri, fisici. Cd o vinili.
Più o meno una cinquantina. Non contando quelli che arrivano da recensire.

D – Mi fai una domanda tu?
R – Credi in Dio? Motiva.

(Non ci credo, in Dio. Non ci sono sufficienti elementi che me ne dimostrino l’esistenza. Peraltro ciò non vuol dire che non esista, ma in genere l’onere della prova è a carico di chi propugna la tesi. Infatti non dico che dio non esiste, semplicemente non ne ho la più pallida idea. Il fatto che io abbia una canzone nuova chiamata “Dio non c’è” non deve spaventare più di tanto. Sono anni che penso di inserirla in un disco e poi mi convinco che non è tutto questo granché.)