Il Banco vince

A me il Banco non ha mai detto nulla. Non che non mi piacciano tante cose di rock progressivo, ma il Banco non mi ha mai detto niente di speciale. Ci ho anche provato. Ho comprato il disco con il salvadanaio ma niente. L’ho rivenduto. Non è una cosa che faccio spesso. Un mio amico e fan che ama molto il Banco mi ha scritto sull’onda dell’emozione per la scomparsa di Di Giacomo. Gli ho chiesto di poter pubblicare quello che mi aveva scritto. Mi ha detto di si, ma non voleva che facessi il suo nome. Lo pubblico qui sotto perché quando mi è arrivata questa mail mi sono pentito di aver rivenduto il disco con il salvadanaio e quando una mail fa questo effetto secondo me è una bella cosa. Eccola:
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Non è facile da spiegare.

Tensione pazzesca e delicatezza insieme, nello stesso brano. E nelle stesse persone, quando li vedevi suonare dal vivo. Da sotto il palco tu lo sentivi, fisicamente, il piacere che loro provavano a suonare. Quando per divertirti non hai bisogno di fare stronzate, quando il divertimento sta nel fare bene quello che stai facendo. A 25 anni trovare tanta energia e passione in persone di 50, per me era qualcosa di assurdo, una roba inspiegabile. Allo stesso tempo è come essere preso a calci in culo ogni volta che non ho la motivazione per continuare a suonare io.

Ti parlo soprattutto dei primi dischi: Salvadanaio, Darwin, Come in un’ultima cena, e anche Canto di primavera ha due o tre pezzi interessanti.
Quelli degli anni ’80 non li ho mai ascoltati. Ho controllato la discografia adesso e ci sono almeno quattro o cinque album di cui non sapevo niente di niente, nemmeno i titoli. Non hanno mai fatto neanche uno di quei pezzi nei concerti a cui sono stato.

Sicuramente dipende anche dalla provenienza geografica. I castelli romani sono posti bellissimi da vedere, ma almeno in quello dove ho vissuto io il tessuto sociale è veramente una merda. Ecco, il fatto che un gruppo del genere sia uscito da quei paesi e da quei licei, per me che ci sono cresciuto è qualcosa di molto simile a un miracolo.

Francesco poi era incredibile. Durante i passaggi strumentali (lunghissimi, praticamente metà del concerto) se ne stava in un angolo e tu dovevi metterti a cercarlo con lo sguardo, se volevi sapere dov’era. Poi a un certo punto, quando mancavano 15-20 secondi alla prossima parte cantata, sbucava fuori e lo vedevi
avvicinarsi al centro del palco. Arrivava pianissimo, zoppicando. Certe volte avevi la sensazione che non ce l’avrebbe fatta in tempo per attaccare, ti veniva quasi da urlargli “Cazzo, sbrigati!” mentre gli altri suonavano.
Invece arrivava. Quando toccava a lui, lui c’era: apriva la bocca e ti rovesciava in faccia la sua musica, le sue parole. Tu lo sentivi, non potevi non sentirlo, e di colpo ti sembrava di essere tu quello brutto, basso, grasso, calvo e sciancato, e lui diventava un dio greco.

Mai presuntuoso, mai una frase sopra le righe, mai un atteggiamento del cazzo.
Solo voce, grinta e qualcosa da dire.
La musica è questo, nient’altro. Vaffanculo ai maxischermi, le ballerine, i coriandoli e i fuochi d’artificio.