Un bicchiere.

Sono morte centinaia di persone nell’affondamento di un barcone. Ci siamo indignati. Abbiamo fatto il lutto nazionale. Abbiamo litigato perché c’era chi diceva che non bisognava farlo, che bisogna buttarli fuori e tutte quelle robe lì. Poi ne sono morte altre decine per un barcone, nove giorni dopo. Ci siamo indignati meno, non abbiamo fatto il lutto nazionale, abbiamo anche litigato meno con quelli che dicevano che bisogna buttarli fuori e tutte quelle robe lì. A dire il vero non ne abbiano nemmeno parlato, qualcuno ci ha provato ma poi ha pensato che non erano trecento ma solo una trentina oppure siamo rimasti in silenzio pensando “Ma che palle, adesso però. Mica posso sempre incarognirmi”.

A volte mi chiedo quale sia la nostra soglia, nella percezione delle cose.

Sembra un bicchiere da riempire al contrario.

All’inizio, sull’orlo, sta la tacca dello sgomento, dell’indignazione, della protesta. Ad un certo punto, che non so misurare, sta la tacca della normalità, dell’abitudine. Un pelo sotto sta la tacca dell’ineluttabilità, della rassegnazione. Sul fondo arriva il bicchiere colmo, la normalità.

Poi ci sono le fontanelle, dove l’acqua scorre sempre. Il bicchiere è sempre pieno, quindi. A quel punto ecco la “tradizione”, questa parola che oramai è diventata un falso amico, uno di quelli che (per dirla con “Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese) ti ammazzano con il sorriso sulle labbra.

Poi un giorno arriva uno, gira il bicchiere e se lo beve in un attimo. E ci lamentiamo che manca l’acqua.