Di lavoro (Le parole, la batteria, i batteristi).

C’è una specie di monologo, che in realtà non è un monologo perché non è che io poi stia lì a scrivermi le cose che dico tra una canzone e l’altra quando vado a suonare dal vivo. Non ne ho la capacità, di fare l’attore di teatro. Al massimo mi improvviso un poco cabarettista-cazzone, che quello mi riesce bene e ormai ci sono persone che vengono ai miei concerti solo per sentire le cazzate che sparo tra una canzone e l’altra. Ma sto divagando, come al solito.

Dicevo, c’è una specie di monologo dove dico che secondo me le parole hanno una loro carica naturale che funziona più o meno come la batteria di un cellulare e quindi ogni volta che noi usiamo una parola, questa perde un poco della sua carica originaria. Poi ad un certo punto finisce che dobbiamo lasciare riposare la parola in questione perchè è scarica quasi completamente. A quel punto spesso, come con i cellulari, ci capita di dover utilizzare la parola di nuovo prima che la ricarica sia completa e quindi la carica della parola dura sempre meno, fino a quando la parola è bella che andata e a noi non rimane che non usarla più, perché a quel punto che noi la si usi o meno ormai il suo significato (la sua carica) è andato in vacca.

In genere, dopo aver fatto questo pistolotto introduttivo, suono “La gente”. Che è una parola che secondo me dovrebbe essere lasciata a ricaricarsi per un bel po’.

Ma ce ne sono altre, di parole che dovrebbero ricaricarsi. Una che mi viene in mente al volo è la parola “EVENTO”, che credo spieghi bene l’analogia con la batteria del telefono. Una volta un evento era un cataclisma, un’inondazione, la nascita del proprio figlio. Poi è diventato una roba tipo una visita del Presidente della Repubblica, poi è diventato il passaggio del Giro d’Italia, poi la festa del patrono, poi un concerto in uno stadio, poi un concerto in un pub, poi un dj set e oggi “UN EVENTO” significa più o meno “tre spritz, due ciotole di arachidi e di patatine, un Ipod in funzione Shuffle attaccato a due casse”.

C’è un’altra parola che mi sembra stia subendo una involuzione simile. La parola LAVORO. Già questa è una parola equivoca. Il lavoro cambia il suo significato a seconda dell’ambito. In fisica ha un significato diverso dal linguaggio comune, dove può essere ad esempio usato come sinonimo della parola “COSA” o addirittura della parola “evento”, come in Emilia facciamo spesso. Oppure c’è il significato che le si attribuisce nel senso di “lavoro salariato” o comunque “occupazione”. In pratica, quello che fai per vivere, “quella cosa che ti dà un reddito”.

Avendo scritto qualche canzone sull’argomento, anche io ho probabilmente partecipato allo svilimento collettivo che stiamo attribuendo a questa parola. Mi dispiace e molto, soprattutto perché ritengo di essere arrivato a dare colpi ferali ad un corpo che ormai si rannicchia esanime in cerca di protezione.

Credo infatti che tutti quei politicanti e sindacalisti che dicono che “la priorità è IL LAVORO” abbiano creato la maggior parte del cortocircuito. La priorità non è IL LAVORO. La priorità è IL REDDITO. Visto che difficilmente quest’ultimo si raggiunge non lavorando, a meno di non intraprendere azioni criminali, per la “proprietà transitiva del farsi il culo come una capanna” il lavoro è diventato la priorità di molti di noi. Ma è uno scambiare il mezzo con il fine. Di questo, ad esempio, parlo in “Criceti” (uno dei pezzi del mio ultimo album) attraverso alcuni esempi di vita vissuta che vanno ad indicare quella che secondo me è la funzione del “lavoro”.

In tanti, ad esempio, mi dicono che uno dei loro pezzi preferiti quando suono dal vivo è “Colleghi” (Tanti tra i pochi che mi vengono a vedere suonare, sia chiaro. Non voglio mica esagerare che questo post è già talmente autoreferenziale che “Rattle and hum” degli U2 a confronto sembra davvero un documentario su una tournée).

“Colleghi” parla della mia intolleranza alle cene aziendali, le cosiddette “CENE DI LAVORO”. Le cene di lavoro sono cene dove si mangia tra colleghi di lavoro e in genere paga la ditta, altrimenti nessuno ci va.

Ebbene, ho dovuto purtroppo constatare che la canzone in questione (che eseguo ancora oggi con sommo piacere) è stata inesorabilmente sorpassata dall’usura del tempo, nonostante a me sembrasse di sferzante attualità e diversi apprezzamenti da parte degli spettatori ad ogni sua esecuzione avvalorassero tale ipotesi.

Infatti siamo arrivati alle locandine fuori dai ristoranti che propagandano il “menù fisso a mezzogiorno” come si diceva una volta, chiamandolo PRANZO DI LAVORO. Ora, la cena di lavoro nell’immaginario collettivo è una roba con una bella tavolata grande, parecchie portate, roba sontuosa, scrocconi che prendono il vino che non berrebbero mai se dovessero tirare fuori la grana, discorsoni dei capi che ringraziano tutti i presenti in formule retoriche che in realtà servono ad autoincensarsi e cose così.

Il pranzo di lavoro invece è una roba “Menu fisso 1 primo + 1 contorno + acqua o bibita piccola + caffè = 10 euro”. Una cosa del genere. Infatti è una roba dove si va in quattro al massimo. In una mensa non lo pubblicizzano neppure. E’ la regola. Diciamo che è una formula usata dai ristoratori che significa più o meno

“Questa non è mica una cazzo di mensa, questo è un posto di classe. Però, cari i miei straccioni, se volete venire a mangiare qui nel mezzogiorno sono disposto ad arrivare a questo compromesso, anche perché altrimenti mi tocca chiudere”.

Oppure, se letta nei bar, significa più o meno:

“Si, lo so che c’è scritto BAR. Però guardate che abbiamo un forno a microonde, non vi siete rotti le palle di farvi pelare per mangiare ai tremila chilometri all’ora, che tanto dovete tornare SUBITO al lavoro e manco ve la godete? Arrendetevi”
(Infatti ogni tanto i bar scrivono PRANZI VELOCI, come se fosse obbligatorio andare al bagno a lavarsi le mani di corsa. Alcuni bar un giorno vi noleggeranno anche la tuta e le scarpette)

Io e l’uomo che suona la batteria nei miei dischi, CESARE ANCESCHI detto CICO, che è un uomo che incarna i valori del surrealismo più o meno in ogni azione che compie durante il giorno, abbiamo avuto un’idea che non era male, ormai diversi anni fa.

Ci siamo vestiti di tutto punto, con un completo figo, abbiamo preso delle valigette “giuste” con dentro dei grafici e dei fogli che non volevano assolutamente dire nulla, abbiamo comprato “IL SOLE 24 ORE” e poi ci siamo recati in un ristorante a fare un “pranzo di lavoro”. Un sabato, che in genere il sabato la formula “pranzo di lavoro” non c’è, che anche questa è bella.

Abbiamo pranzato mostrandoci i rispettivi grafici sul nulla (io avevo anche stampato gli accessi a questo blog e le chiavi di ricerca, giusto per fare qualcosa), dopodiché abbiamo iniziato a progettare il futuro dell’iniziativa. Ci siamo detti che avremmo dovuto riprendere l’usanza ogni anno, ogni volta invitando una persona la quale l’anno successivo avrebbe dovuto invitarne un’altra e così via, in una costruzione piramidale che nei nostri sogni più rosei mirava, nel giro di quindici anni, ad aver bisogno di un hotel con centro congressi, dove noi due che eravamo i fondatori avremmo tenuto una relazione sul brillante successo di una iniziativa deliberatamente inutile che aveva come unica caratteristica base la totale stupidità da parte dei partecipanti.

Purtroppo non abbiamo mantenuto la promessa e dopo quella prima edizione, nella quale eravamo gli unici due partecipanti, abbiamo lasciato cadere la cosa pur ripromettendoci ogni volta che avremo dovuto ricominciare facendola diventare una consuetudine.

Nessuno, all’interno del ristorante, ci ha chiesto che lavoro facessimo. Nessuno ci ha chiesto la partita Iva. Ci siamo chiesti allora che pranzo di lavoro fosse, dal momento che veniva applicata la formula esclusivamente sulla fiducia. Tant’è che il mio commensale, in quel periodo, era disoccupato. Eppure alla cassa chiesero “Vuole la fattura o basta la ricevuta?” solo perché eravamo vestiti bene e avevamo dei fogli in mano per tutto il pranzo, che ci passavamo dicendo frasi a caso tra gli sguardi interessati dei tavoli a fianco, conquistati grazie alle espressioni serissime che avevamo mentre pianificavamo i nostri deliri Post-Marxisti (nel senso di Groucho).

Non so perché vi abbia raccontato questa cosa, forse solo perché a noi faceva ridere molto. Ma credo anche perché, se incominciamo a chiamare le cose con il loro nome, probabilmente sarà meno facile per i primi due imbecilli che passano, fingersi quello che non sono.

O forse cercavo solo adesioni :-)

 

No me moleste mosquito. Il mestiere di essere Ray Manzarek.

La prima volta che ho ascoltato i Doors è stata intorno al 1982/1983. C’erano dei video che giravano su “Mister Fantasy” di Carlo Massarini con questa musica allucinante e mio fratello portò in casa un disco dei Doors chiamato “Greatest Hits”. Io non lo sapevo che voleva dire “I grandi successi”, che avevo dieci anni e infatti mi stupivo che c’erano in tanti che avevano fatto un disco con quel titolo lì. Poi iniziai ad imparare l’inglese proprio con i Doors, ma di questo ho già scritto in un post molto vecchio e a quello vi rimando. In quel disco lì c’era una canzone che era la seconda del lato A del vinile e che si chiamava “Light my fire”. Partiva con una introduzione di tastiera e poi dopo una parte cantata partiva una roba lunghissima dove non cantava nessuno e questi suonavano come invasati. “Ma quanto cazzo dura? Ma non cantano più?” e poi ripartiva a cantare e il pezzo finiva. La cosa mi mandava nei matti, con il tempo avrei imparato che la cosa più bella del pezzo era proprio quella parte di mezzo. Poi da lì vennero i dischi ufficiali, che mio fratello comprava uno dopo l’altro. I Doors erano fighissimi e poi avevano canzoni LUNGHE. La mia preferita era e rimane ancora oggi senza dubbio “When the music’s over”. 11 minuti che mi mandarono fuori di testa. C’era tutto quello che potevo desiderare.

Ma non voglio parlare di quanto fossero fighi i Doors e di quanto fosse importante quella tastiera (io le tastiere le odio, ma Ray Manzarek e i Doors rappresentano l’eccezione) nell’economia del suono dei quattro. Non lo voglio fare perchè ritengo che i Doors fossero uno di quei rari casi dove se ne togli uno salta tutto o quasi. Non avrebbero avuto senso con un altro cantante, con un altro tastierista, con un altro chitarrista (No, dico… tutta la musica folk araba, indiana, zingara della chitarra di Krieger?) e con un altro batterista (Densmore era drammaturgia pura. Suonava la batteria spesso seguendo la voce di Morrison e sottolineandone la recitazione o il canto con momenti che ricordano quelli di un circo o di un cabaret. Non è una cosa così usuale. E funzionava).

Dicevo, voglio parlare del mestiere di essere Manzarek. Perchè essere Ray Manzarek è un mestiere a tempo pienissimo. Mi spiego meglio.

I Doors durarono dal 1967 al 1971, poi Morrison se ne andò e ci lasciò le penne subito. Il suo stile di vita rock’n’roll gli consegnò 27 anni di vita in un corpo che ne dimostrava 56 portati male. A quel punto i tre superstiti ci provarono. Fecero il colpaccio. Incisero un disco senza Morrison, cantando loro (Manzarek, spesso). Si chiamava “OTHER VOICES”, altre voci. Il disco fu un flop. Ne fecero pure un altro, si chiamava “FULL CIRCLE” e il cerchio si chiuse davvero qui. I Doors senza Morrison NON SE LI CAGAVA NESSUNO.

Infatti, se andate a vedere nella discografia dei Doors quei dischi lì non figurano neanche. In molti non sanno neanche che esistono.

Poi, visto che bisogna campare, decisero di tirare fuori dei vecchi nastri con il morto che recitava poesie e ci suonarono sopra. Funzionò, il pubblico se la bevve, trovò spazio anche una versione dell’Adagio di Albinoni schitarrata da Krieger su base recitante che ancora oggi grida vendetta.

Ma il vertice assoluto di questo scempio fu toccato in “Full Circle”. Lì c’era un brano chiamato “MOSQUITO” che era una filastrocca che diceva “No me moleste Mosquito, Leat me eat my Burrito, No moleste Mosquito, Why don’t you go home”. Andatevela a sentire su Youtube.
Roba che a confronto lo zecchino d’oro sembra Immanuel Kant.

Fatto? Bene. A questo punto per i Doors superstiti cominciava, grazie ad “An american prayer” e al culto del cantante scomparso, una fitta sequenza di impegni. I ragazzi ricominciavano a suonare dal vivo insieme, senza il cantante. Vennero arruolati cantanti occasionali più o meno noti e quando ad un certo punto diversi anni fa John Densmore decise che aveva fatto abbastanza soldi, venne preso addirittura un nuovo batterista. Senza pietà, più o meno come fanno gli Who (che si chiamano così perchè non sai più CHI suoni).
Il tutto condito da reincisioni di album, VHS che poi diventano DVD che poi escono di nuovo con qualche extra, un film incentrato soprattutto sulla vita dell’amico morto, poi altri documentari, poi interviste continue e il tutto SEMPRE A PARLARE DI QUEI 4 ANNI (scarsi) LI’, dal 1967 al 1971.

Perché appena snoccioli un aneddoto o suoni un accordo sono tutti lì in adorazione. Ma non appena accenni a qualcosa di altro che potresti aver fatto a nessuno frega niente di niente di niente. MAI.

Visto che molti che leggono questo blog sono persone che suonano, prego a lorsignori di provare ad immaginare la loro vita secondo l’applicazione del “Metodo Manzarek”.

Vi ricordate la roba che suonavate (a seconda dell’età che avete) 10, 15, 20 anni fa? Bene, ora immaginatevi che abbia avuto un successo notevole e immaginatevi costretti a suonarla SEMPRE. A parlarne sempre. A parlare di continuo del cantante (o bassista) del vostro gruppo di quanto avevate 18 anni (o 27, a seconda di quel che vi è capitato). Si, proprio di quel tizio che oggi non vedete più e che non sapete manco se ha famiglia, figli… Immaginatevi a parlarne tutti i giorni, tutti vi chiedono qualcosa a riguardo, sempre le stesse cose. E poi la musica. Sempre le stesse canzoni, sempre le stesse. Folle in delirio non appena accennate l’incipit di (mettete il titolo di un vostro pezzo che suonavate quindici anni fa, del quale non vi ricordate manco gli accordi). Visto che probabilmente suonate ancora, immaginate che tutto quello che avete fatto dopo sia TABULA RASA, tanto è vero che avete dovuto rinunciare a pubblicarlo e financo a suonarlo, se volevate campare.

Non è una vita così idilliaca, vero? Una timbratura di cartellino per svolgere sempre la stessa identica mansione. Una specie di “giorno della marmotta” in versione rock’n’roll. Anche perché lo dovrete fare fin quando campate. Sempre, sapendo che ogni canzone che vi andrà di scrivere non troverà mai spazio. Tutti vorranno sempre e solo sentire (e sentire parlare) di quei quattro anni lì. Quattro anni che per voi sono sempre più lontani, tanto che oggi manco ve li ricordate più così bene.

Immaginatevi poi che quando tirate le cuoia per un poco giri la voce che la vostra morte sia una bufala, che parta un mistero simile a quello dell’amico di cui sopra. Insomma, anche nel momento del trapasso vivere nell’ombra.

Ho letto su diversi socialcosi (copyright Marco Manicardi) di persone che, per tessere le lodi del Manzarek gli auguravano di “Ritrovarsi con Jim per suonare insieme (mettete il titolo di un pezzo dei Doors famosissimo).

Personalmente ho voluto troppo bene alla musica dei Doors e quindi a Manzarek per augurargli una punizione da girone dantesco come questa. Ray, se dovesse esistere l’aldilà, ti auguro di poter finalmente cominciare a suonare quel cazzo che ti pare. E se Jimbo dovesse proprio farsi vivo, ti auguro che ti chieda “No me moleste mosquito?” e poi ti dia l’attacco “Uno, dos, tres, quatros” e poi giù a ridere.

Turn off the lights.

Vi consiglio un libro per la festa della mamma.

Chiara Lalli è una donna che ha studiato e insegnato una disciplina chiamata LOGICA. Esiste proprio una disciplina scolastica chiamata LOGICA, come Matematica, Italiano, Francese, Stenografia, Estimo, Biologia e altre seimila cose che si insegnano (o si insegnavano) a scuola. Sembra una cosa da niente e invece non lo è, perché molte volte quando parliamo con un amico o in generale quando esprimiamo un’opinione su qualcosa e la motiviamo poi diciamo “E’ logico” e invece, se stessimo parlando con un insegnante di logica quest’ultimo ci farebbe capire come non lo è per niente.

Chiara Lalli qualche anno fa scrisse un libro chiamato “Buoni Genitori – Storie di mamme a papà gay”. Lo comprai e lo lessi. Mi ritrovai a ribaltare alcune mie convinzioni sull’argomento. A volte dovetti impegnarmi non poco per superare certi pregiudizi che onestamente manco credevo di avere, ma la spiegazione del perchè dovevo farlo era lì, nero su bianco, logica. E’ difficile combattere contro la logica, prima o poi ti arrendi oppure sei una persona ottusa e allora non c’è niente da fare.

Chiara Lalli ha scritto un altro libro, uscito di recente. Si chiama “A. – La verità, vi prego, sull’aborto”. L’ho comprato e l’ho letto. Io sono assolutamente a favore della possibilità di abortire per una donna, quindi mi pensavo che in questo caso mi sarei trovato a leggere un libro che non avrebbe scardinato nessuna delle mie convinzioni. Mi son detto, tra me e me, con quella faccia di chi si compiace e fa anche un poco il furbetto “Questo lo leggo che è una passeggiata, dai…”

Mi sbagliavo.

Non che io sia diventato uno di quelli che vanno alla marcia per la vita. Anzi, la mia convinzione che una donna debba poter scegliere tra abortire e affrontare una gravidanza si è rafforzata. Però si sono sgretolate alcune convinzioni che avevo sull’argomento e allo stesso tempo mi sono accorto di quanto fossi vittima di pregiudizi e luoghi comuni nell’affrontare la questione. Il tutto con la semplice arma della logica (e qualche statistica in soccorso, di tanto in tanto).

Ho dunque potuto notare come la maggioranza degli aborti non sia per donne alla prima gravidanza e quindi la mia convinzione (derivata principalmente dal cinema) che l’essere madre e abortire siano due concetti che faticano tanto a stare insieme è subito saltata. Credevo onestamente che la maggior parte degli aborti riguardassero ragazzine o donne giovani e comunque primìpare.

Ho capito che la scelta abortista o antiabortista non deve ammettere “l’eccezione dello stupro”. Per te l’embrione è come una vita umana? E allora anche se è frutto di uno stupro, non ripari allo stupro con un omicidio. Di uno che non c’entra niente. Se per te un embrione e un bambino di (N) anni sono la stessa cosa e poni l’eccezione dello stupro, allora perché punire una madre che magari lo uccide quando ha 3 anni? Sempre frutto di uno stupro era (Se poni l’eccezione dello stupro significa che sotto sotto per te un bambino ed un embrione sono due cose completamente diverse. Prima lo ammetti a te stesso, prima la pianti di fare casini sulla pelle delle persone).

Ho capito che il fatto di non parlare mai di aborto sia la più grande cazzata micidiale che si possa fare. Se, come viene sempre detto, l’aborto è un’esperienza traumatica, devastante, dolorosa… Perché non dovremmo parlarne, visto che la prima cosa che ti dicono quando hai un qualsiasi problema è di parlarne con qualcuno (Un amico, i genitori, uno psicologo, eccetera)?

Ho capito che l’aborto non è sempre un’esperienza traumatica. Dipende. Ci sono donne che lo affrontano come un trauma, altre che non si pentono neanche per un secondo e che non hanno nessun rimorso.

Ho capito che non tutte le donne vogliono diventare madri e questo non le rende assolutamente donne di serie B.

Buona festa della mamma. A tutti.

Back to Black, Back in Black, Black Block, insomma… Basta che sia nero.

Ieri, 4 Maggio 2013, c’è stata una memorabile edizione della Neil Young Convention. Ogni anno quel pazzo di Giampaolo Corradini organizza un raduno di fan di Neil Young e dintorni. Arrivano gruppi e persone da tutta Italia. Si fanno concerti al pomeriggio al Tabacchi Blues a Fontana di Rubiera e alla sera in un altro posto (negli ultimi tre anni al “Batard” di San Prospero). Quest’anno con mia moglie abbiamo portato il nostro banchetto per il Canile di Arceto, dove vendiamo vinili, Cd, libri, vestiti ecc…

C’è della bella roba. Molte persone comprano e tornano. E’ andata molto bene. Ma non volevo parlare di questo.

Ad un certo punto, ieri pomeriggio arriva un ragazzino di 8 anni, con una stampella si avvicina e con una decisione che non avevo mai visto in un ragazzino del genere chiede “Cos’hai di FUNKY?”.

Io do un’occhiata al banco dei CD e non è che abbia tantissimo, però trovo “I just can’t help myself” di Terry Callier a 3 euri e gli dico “Cavoli, questo è tosto.” Lui guarda, lo mette da parte. “E POI?” chiede, sempre con quel tono che nei telefilm di Starsky e Hutch hanno gli spacciatori portoricani.

E poi non mi ricordo, che ero un attimo stupefatto dalla situazione, ma qualcos’altro l’ho trovato, sempre a 3 euri. Poi guardando in giro vedo “PLAY” di Moby e gli dico “Anche questo potrebbe piacerti” e sono ancora intontito dal fatto che sto parlando con un bambino di 8 anni. Lui prende il disco di Moby, lo gira e poi dice “Nooo… è bianco, non mi interessa”.

Si volta verso sua madre e dice “Mamma, due cd di funky a 6 euro. E’ un buon investimento”. La mamma tira fuori i soldi e lui, tutto contento, si mette in saccoccia i due cd.

Son basito. Il prossimo anno mi porto un dischetto minore di Fela Kuti e glielo regalo, quasi quasi.

 

 

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