Poi mando una newsletter tra qualche giorno

OSSERVATORI ESTERNI
“Osservatori Esterni” è un bel sito internet dove si parla di musica. Hanno una rubrica chiamata “O.E. Confidential” dove fanno un giochino con 15 domande secche alle quali rispondere al volo, senza pensarci troppo. Mi ci sono sottoposto con piacere. Inoltre hanno fatto una recensione de “I SONNAMBULI” talmente elogiativa e approfondita che mi è venuto da montarmi la testa. Ora la smonto subito, lo giuro. Ma intanto leggetevela.

L’EDICOLA
Stando ai soliti bene informati, su “Rumore” e “Buscadero” di Novembre dovrebbero esserci due recensioni altamente positive de “I sonnambuli” a firma di Barbara Santi (Rumore) e del direttore Guido Giazzi (Buscadero). Correte in edicola.

WALKABOUTS
E’ uscito il nuovo album dei Walkabouts, dopo sei anni di silenzio. “Travels in the dustland” ha tutti i crismi del capolavoro, se diamo retta alla carta stampata che lo ha salutato come un vero e proprio rientro trionfale per la band di Seattle. I Walkabouts faranno un’UNICA DATA ITALIANA il giorno 18 Gennaio al GIARDINO di Lugagnano di Sona (VR). Vi consiglio di prenotarvi il biglietto tramite il sito del locale, perchè non è grandissimo. Ad aprire il concerto indovinate chi c’è… Essere amici di Chris Eckman e averci fatto un disco insieme ha i suoi privilegi.

Quanto pesa un morto?

E’ sempre molto interessante osservare le reazioni che abbiamo di fronte alla morte, in qualsiasi salsa ci venga presentata. L’ultimo esempio che mi ha incuriosito è stato in questi giorni con la morte di Simoncelli. Non sono un amante del motociclismo, dei motori in genere. Ho una teoria fanta-politico-cospiratoria per le gare di formula uno. Ritengo che vengano tenute negli ospedali per essere usate come anestesia, quando ci si trovi a dover operare d’urgenza in caso non si abbiano medicinali adatti alla bisogna. Idem per il motociclismo, che trovo appena meno noioso. Aggiungete che non ho più la televisione da 3 anni e capirete che non conoscevo il malcapitato. Ritengo che facendo quel mestiere lì sia una cosa, quella di morire sul lavoro, che si metta anche un poco in conto. Ma non è questo il punto.

Il punto è che ci sono un paio di cose che non mi piacciono, in questo circo della morte.

La prima è il fatto che ormai basti essere celebri e si ha un funerale in diretta televisiva. Una volta questo accadeva per i presidenti, i dignitari e i reggenti. Oggi basta essere “qualcuno” che voilà… alla tua dipartita scatta la squadra esterna 3 di (riempite voi lo spazio) a filmare le immagini. Il funerale è ormai diventato un genere televisivo a parte, a fianco dei varietà, degli eventi sportivi, dei talk show e dei “reality” (ai quali probabilmente è appartenuto per un breve periodo prima di affermarsi come genere a sé). Capita di vedere persone che salutano la telecamera quando passa, striscioni e applausi (a questi ultimi due ci siamo abituati, agli stronzi che salutano con la manina e sorridono ci vorranno ancora una decina di decessi, a occhio e croce).

La seconda cosa che stona è lo stupore per il dolore collettivo. In genere questo stupore dal sapore vagamente acidulo si manifesta soppesando i morti legati ad un altro avvenimento. In questi giorni l’occasione d’oro (si fa per dire) è stata rappresentata dalla catastrofe in Lunigiana e zone limitrofe. Via dunque alle osservazioni in base alle quali ci si dovrebbe dolere maggiormente per i 16 morti dell’alluvione rispetto al campioncino che a quell’età era milionario e quindi comunque se l’è goduta (questo il messaggio implicito, espresso più o meno velatamente). Questo soppesare i morti è un giochino nel quale caschiamo un poco tutti, a seconda di quanto ci sta antipatico il “morto ricco e famoso” (chiedo scusa, si fa per capirsi) o il suo contesto.

Ebbene, proprio perché capita a tutti noi di averlo farlo, sarebbe ora che cominciassimo a dirci che mettere sulla bilancia qualche cadavere per vedere quanto debbano pesare i sentimenti altrui è, oltre che un gesto maledettamente volgare, anche un gesto piuttosto ignorante e inutile.

Inutile perché il giochino si potrebbe ripetere allargando sempre più le proporzioni, in genere finendo per “tutti quei milioni di bambini che muoiono di fame” (vi consiglio un “e allora gli adulti che muoiono di fame? Mica muoiono soltanto i bambini” per stupire il vostro interlocutore e vincere così la gara della pietà a parole).

Volgare per due motivi. In primis perché si sente un poco la puzza del voler farsi belli e intelligenti sulla pelle di qualcuno. In secondo luogo perché si pretende di imporre agli altri i propri sentimenti e la propria scala di valori. E’ morto il vostro cane? Non potete piangere, a meno che non abbiate pianto molto quando è morto un vostro amico. E ricordatevi che dovete piangere di più per un parente, anche se è uno zio di terzo grado che non avete mai visto, perché è comunque un parente. (Mio padre non ha pianto una lacrima alla morte dei suoi genitori e sei mesi fa ha seppellito il gatto piangendo come una fontana. Io non ho pianto una lacrima per i miei nonni, ma sembrava che avessi un temporale negli occhi quando è morto il mio cane. Mi sento in colpa? Francamente no. Mio padre nemmeno, credo. Mio nonno capirebbe, credo.)

E qui viene la stupidità. Nel senso che i nostri sentimenti di fronte alla morte sono, appunto, SENTIMENTI. Per natura sono soggettivi e spesso, istintivamente, vanno a toccare corde che nemmeno noi conosciamo con esattezza. Proprio di fronte al dolore scopriamo qualcosa di noi che non conoscevamo, se ci dice bene.

Insomma, l’amore, il dolore, la perdita, l’abbandono… sono cose davanti alle quali ritengo giusto e consigliato sentirsi egoisti. E davanti alla manifestazione altrui di un sentimento così, la reazione più composta sarebbe, in caso non si senta autentica solidarietà, il silenzio. Silenzio inteso come sottrazione al circo della morte, al genere di spettacolo che l’abbiamo fatta diventare.

Vi ricordate quando ci fu la strage in Norvegia, quest’estate? Chi si ricorda il nome dell’isola? Ma come, non eravate così sconvolti da non dimenticarvelo più? Non avevamo messo tutti una bella bandierina norvegese (qualcuno dell’Islanda o della Svezia, cacchio… le fanno tutte uguali) sul nostro profilo Facebook, pronti ad indignarci per quanto accaduto? Qualche giorno dopo morì Amy Winehouse e alcuni cambiarono la bandierina norvegese con la faccina della cantante. Alcuni qualche secondo dopo se ne sono pentiti e sono tornati alla bandiera… Mi immagino la difficile decisione: “Mi dispiace di più per lei oppure per i Norvegesi? Cavolo, i norvegesi erano 93…Però mica avevano scritto un pezzo come “Rehab” quelli…”

Davanti alla morte fidatevi di chi non teme di mostrarsi egoista. I più altruisti, generosi, intelligenti… teneteli alla larga. Altrimenti potrebbe capitarvi di sentire cose come questa (sentita con le mie orecchie) “Hai visto il funerale di Pavarotti?” “Si. Ti dirò, bello, eh… ma mi è piaciuto più quello del Papa”

Ottobre

WORKING WEEK

Una settimana ricca di appuntamenti. Giovedi 20 infatti parteciperò alla serata finale del tour di “Our secret Ceremony” dei Julie’s Haircut, in un concerto speciale all’Off di Modena che vedrà la presenza di altri ospiti di rilievo quali Angela Baraldi, Emanuele Reverberi e altri che vedrete se verrete. Venerdì 21 invece suonerò insieme ai JAMES RIVER INCIDENT, quintetto a tinte Paisley Undeground con il quale mi diletto da un paio di anni. Abbiamo realizzato un dischetto cantato in lingua inglese chiamato “No one loves anybody here and that’s the truth” che non è affatto male. Dentro ci sono alcune canzoni scritte da me diversi anni fa che reclamavano di essere registrate, nonché qualche brano decisamente lussuoso a firma Marco “Blasters” Paderni, il nostro leader spirituale che questa sera, dalle ore 19 alle ore 21, presenterà il disco sulle frequenze di K Rock, intervistato da Marco Moser. Il disco lo potrete acquistare al concerto, che faremo Venerdi 21 ai VIZI DEL PELLICANO di Fosdondo di Correggio. DOMENICA 23 Ottobre, per chiudere una settimana decisamente intensa, sarò invece in concerto in perfetta solitudine all’ARCI CHINASKI di Sermide, all’incrocio tra le province di Mantova, Ferrara, Rovigo e Verona, in pienissima pianura padana e sulla riva del fiume Po. Orario aperitivo, qualsiasi cosa significhi. Poi per qualche giorno basta concerti. Si ricomincia a Novembre, più carichi che mai. Novembre dovrebbe essere anche il mese che avrà una bella infornata di recensioni sui giornali. Ve le segnalerò con dovizia di particolari.

BOOKS

In genere i libri che spiegano ai gruppi come devono comportarsi sono pieni di frasi fatte, aria fritta e non arrivano mai al punto. NON E’ IL CASO DI QUESTO LIBRO che si chiama “Rock in progress” ed è stato scritto da un giovane ragazzo romano che porta il nome di Daniele Coluzzi. Una vera e propria inchiesta sul rock indipendente italiano travestita da vademecum per le giovani band che decidono di cominciare a fare questa vita indegna. Cercatelo, diffondetelo, compratelo e leggetelo.

CONCERTI
Eccovi le mie date dal vivo. Ci vediamo lì?

23/10 Chinaski – Sermide (MN)
08/11 Glue – Firenze w/ Butcher the Bar
10/11 Krock – Intervista con Marco Moser
11/11 Corallo – Scandiano (RE)
12/11 Circolo Bazura – Torino
18/11 Carmen Town – Brescia
23/11 Giovane Italia – Parma
18/12 Circolo Pantagruel – Casale Monferrato
24/12 La salumeria del rock – Arceto (RE) Concerto di Natale, solo covers.
18/01 Il Giardino – Lugagnano di Sona (VR) w/ The Walkabouts
21/01 I vizi del Pellicano – Fosdondo (RE)
27/01 Il localino del Giulietti – San Marino (RSM)
04/02 Circolo Ho Chi Minh – Pistoia
07/02 Radio Blu Veneto – Padova da conf
23/03 Espace Populaire – Aosta
24/03 Blah Blah – Torino da conf.

Bert Jansch

Oggi è morto Bert Jansch, l’uomo che ha insegnato (insieme a Davy Graham) a suonare la chitarra acustica con le potenzialità delle accordature aperte a tutta l’Inghilterra. Nick Drake e Jimmy Page, tanto per dire due nomi mica da ridere, narravano delle ore passate ad ascoltare i suoi dischi cercando di capire come riuscisse ad ottenere certe sonorità. Con una chitarra acustica e una voce, Jansch riusciva a farti sentire, pur rimanendo musicalmente ben ancorato al folk rock di tradizione inglese e celtica, sapori e profumi di Asia e Africa. Il tutto quando le parole “world” e “music” erano ancora intese una indipendente dall’altra. Ho conosciuto la musica di Jansch solo di recente, quando sono stati ristampati alcuni suoi lavori in Vinile 180 grammi. In particolare l’album “It don’t bother me” è uno dei dischi che, quando devo scegliere quale vinile mettere sul piatto, finisce per essere la colonna sonora delle mie serate. Più di ogni altra cosa però, a colpire uno come me, che non ha mai avuto la fortuna di vederlo suonare dal vivo, è un filmato che circola su Youtube. Un filmato girato di recente, dove Jansch interpreta una versione di “Blues run the game”, vecchio brano di un altro grande del folk scomparso prematuramente che risponde al nome di Jackson C. Frank e che Jansch aveva incluso in un suo disco altrimenti piuttosto deboluccio del 1975, “Santa Barbara Honeymoon”. In quel filmato il nostro è ripreso al Pub, per una serie di trasmissioni di non so quale programma che tendono a valorizzare l’aproccio “buona la prima”. Un’esecuzione informale, fatta davanti a una pinta di scura, di un uomo di una certa età. La telecamera, per fortuna, indugia anche spesso sulla mano sinistra di Jansch e ne consente di carpire qualche segreto. L’audio, più che soddisfacente, consente di apprezzarne il tocco. Ecco, se io riuscissi un giorno a suonare per 3 minuti con quella intensità, probabilmente potrei appendere la chitarra al chiodo e sarei ugualmente un uomo felice.